E' un Sabato speciale: anche quest'anno la mia compagna, a piccole dosi, mi ha convinto a recarci allo Strigarium, un festival d'ispirazione celtica sulle sponde del Lago d'Iseo. Stavamo girando fra esposizioni e bancarelle più o meno interessanti, talune senza colore, altre allestite con occhio magico - adorne di strane ampolle contenenti suggestioni del passato - quando il sole è sceso a bere le acque del lago e da lontano si è profusa la voce di una soprano. Dapprima suonava incerta, poi sempre più evocativa. Ci avviciniamo al palco, ignari di chi siano questi Leaves' Eyes: scorgiamo soltanto un drappello di metallari vestiti elegantemente, capitanati da una nordica e da un grezzo vichingo con la barba lunga. Vinti dalla curiosità decidiamo di affidarci alle loro armonie. Come al solito, quando si è davanti a una piacevole sorpresa, nella marea degli astanti si accendono uno, anzi, due sorrisi.

Eccomi quindi arrivare a casa, volenteroso di ascoltare la loro uscità più fresca. La copertina: una nave piena di vichinghi solca un oceano in tempesta. Ottimo inizio. Bazzicando sul web scopro che la giovane soprano è invisa a molti amanti dei Leaves' Eyes, infatti è stata recentemente chiamata a sostituire la cantante fondatrice del gruppo, come al solito un avvenimento tragico nella storia di una band. Leggo anche del vichingo di poc'anzi, il quale con la fondatrice del gruppo era anche sposato - certamente per lasciarsi avranno disputato un duello degno dei libri di storia - questo e altro, dunque, ma chi se ne frega? Elina Siirala ha una voce sì delicata eppure capace di far vibrare il corpo, e i pezzi con cui fa il proprio debutto nella band sono molto interessanti. Con questo ultimo lavoro il gruppo tedesco abbraccia un symphonic metal molto vicino al power, con melodie orecchiabili e una struttura incalzante, imperniata sulla formula della strofa-ritornello. Le chitarre pesanti defluiscono nel tintinnare di strumenti tradizionali per poi tornare all'attacco, mentre la Siirala e Krull continuano il proprio duettro nevrotico, fra il canto acuto della donna e i growl sporchi dell'uomo. Pezzi come la title-track, Across the sea o Jomsborg sono il piatto forte dell'album, canzoni veloci quanto semplici, le quali narrano con toni fiabeschi di spedizioni leggendarie, di fortezze mastodontiche e di soldati che attraversano l'oceano lasciando a terra la paura di morire. La ricca produzione dona ulteriore brillantezza alla macchina da guerra del gruppo, il quale non cerca quasi mai l'elevazione, mantenendo come baricentro la voglia di divertirsi e divertire, facendo appello allo spirito d'avventura che risiede dentro ogni uomo.

Sign of the dragonhead non è un album innovativo nè particolarmente originale, ma la tenacia - sorda a ogni sberleffo - nell'affilare armi per ferire la realtà, quella sì, buca con le proprie note la copertina e travolge l'ascoltatore.

***1/2

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