È risaputo che l'heavy metal sia un genere vero e proprio e non una delle tante sottotrame esplose con la disgregazione del rock&roll.
Lampante e irrefutabile è la supremazia tecnica e scenografica di qualcosa che non è soltanto sopravvissuto alla grigia polvere del tempo ma è riuscito a evolversi, partorendo creature tanto mostruose quanto innovative.
È altrettanto chiaro che, in un'epoca di spietata mercificazione come quella che stiamo vivendo, di nulla si può trarre beneficio senza aver dapprima espletato una dispendiosa operazione contabile o, meglio ancora, aver formalizzato un ragguardevole accordo con gli sgherri dell'onnisciente e delittuoso Copyright, il filtro ipermediale e sovrintendente della moderna società degli orrori.
Se è vero che nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma, potremmo azzardare che il delirio raschiante e meccanico di Sunshine Of Your Love, lo starnazzìo psichedelico di I Ain't Superstitious e il blues al plutonio di Jimi Hendrix (l'extraterrestre) non fossero altro che l'efferata conseguenza della corruzione biologica del suono elettrico e di una chitarra collegata a un amplificatore ronzante, tanti anni prima.
Eppure, i tempi erano definitivamente cambiati, negli ultimi anni '60 si respirava un'aria nuova, densa, claustrofobica, quasi sulfurea, e quella voragine che i chitarristi sopracitati avevano contribuito a scavare con le loro compagini si stava trasformando in un vulcano in piena eruzione. Se tutto era nato col blues, ormai dei canti degli schiavi, della sudata sofferenza e del sanguinolento dolore che inumidiva le piantagioni e rinsaldava il ferro delle catene, non restava che un ricordo appannato.
Le immagini accese e sfocate dei BB King e i Muddy Waters, dei Sonny Boy Williamson e gli Howlin' Wolf capeggiavano dalle locandine dei tour appiccicate ai muri e alle bacheche. Quei dischi polverosi e costosissimi che avevano segnato l'infanzia e la prima adolescenza di Mick Jagger, Robert Plant, Brian Jones, Eric Clapton e di tutte le altre future rockstar, adesso subivano vertiginosi cali nelle vendite e spesso venivano abbandonati negli scaffali delle offerte. I Beatles non si erano limitati a sconvolgere il panorama musicale: i "Fab Four" avevano capovolto il mondo del pop scuotendolo dalle fondamenta. E, mentre il quartetto di Liverpool affrescava le pareti del "Secolo breve", un giovane chitarrista chiamato Jimmy Page si faceva le ossa negli studi di registrazione di Londra sognando all'ombra delle immortali melodie di Across The Universe e A Day In The Life.
1970. I tempi sono cambiati. La Rivoluzione è giunta al culmine: un mondo migliore non è possibile. Un mondo nuovo non è possibile. L'instabilità politica e le agitazioni sociali seppelliscono le vibrazioni positive e i bei momenti dell'ultimo lustro. Ha inizio un periodo di transizione che si protrarrà fino alla completa dissoluzione del sogno pacifista. Di conseguenza, anche la musica cambia. In realtà, comincia una lenta discesa. Nell'impossibilità di trasformare l'oro in qualcosa di ancora più prezioso e splendente, ci si limita a battere la prodigiosa terra battuta anni prima dai grandi cercatori e a estrarlo finché ce n'è. Ma i nuovi cercatori non si accontenano dell'abbondanza e delle ricchezze che giacciono nel sottosuolo del Rock n'Roll, esigono anche il loro pezzo di storia, vogliono cavalcare l'El Dorado sino in fondo: nella carrozza non c'è posto per scribacchini e giullari, nessun diario di bordo, sarà la leggenda a parlare per loro.
La favola oscura dei Led Zeppelin inizia con l'implosione degli Yardbirds e un fallito rovesciamento di regime negli Who. Se gli eventi avessero proseguito sulla scia della geniale battuta di Keith Moon, oggi conosceremmo una storia totalmente diversa. Era il '66, quando Eric Clapton, Ginger Baker e Jack Bruce decisero di unire le forze nella creazione del primo "supergruppo", i fiammeggianti Cream, che al momento non avevano ancora un nome. Più o meno negli stessi giorni, le porte degli IBC Studios di Londra si spalancarono dinanzi a cinque musicisti che improvvisarono l'assembramento di una formazione clamorosa. Il risultato di quella sessione fu il rivoluzionario Beck's Bolero. Quegli stessi musicisti, infatti, avrebbero dovuto essere i Led Zeppelin: Jimmy Page, John Paul Jones, Nicky Hopkins e Keith Moon. Più una scelta che si sarebbe presto rivelata impraticabile, il cantante e chitarrista degli Small Faces, Steve Marriott.
Oggi sappiamo che il "Dirigibile Guida" prese il largo con un equipaggiamento del tutto differente. Robert Plant e John Bonham furono reclutati quando avevano perduto ogni speranza, ed è proprio il caso di dirlo: il resto è storia.
Il 1970 è un anno di strepitose uscite per l'hard rock. I Pink Floyd pubblicano Atom Heart Mother, i Rolling Stones lanciano Get Yer Ya-Ya's Out, i Black Sabbath rilasciano Paranoid, forse il loro maggiore successo, gli Who piazzano un colpo micidiale con Live at Leeds, Peter Green colpisce forte con il suo nuovo The End of the Game, i Doors danno alle stampe Absolutely Live, i The Guess Who sfornano American Woman, la Band of Gypsys di Jimi Hendrix registra la sua prima e ultima fatica, Miles Davis incanta con Bitches e i Deep Purple bruciano le strade con In Rock. In mezzo al rimescolamento, la critica distrugge Led Zeppelin III.
I giornalisti, quelli di Rolling Stone davanti a tutti, mentre l'anno prima li accusavano di stuprare il blues saccheggiando il repertorio degli autori americani, adessosi lamentavano del drastico calo di potenza che Page e soci avevano operato in favore di una delicata ricercatezza acustica. Fino a pochi mesi prima non erano altro che una band rumorosa e appariscente, a tratti violenta, che si esprimeva attraverso un chiaroscuro spossante per le orecchie dell'ascoltatore. Il demoniaco santone della cattiva letteratura, William Burroughs, dopo aver assistito alla celebre esibizione del gruppo al Madison Square Garden di New York non mancò infatti di evidenziare come la musica dei Led Zeppelin colpisse la testa, non le gambe: "Non sono come i Rolling Stones, la loro musica non invoglia a ballare, non è diretta alle gambe, colpisce alle tempie..."
Allorché si volesse scadere nella farneticazione e nella melassa delle classifiche e dei generi, financo alle dissertazioni dei propagatori di certa filosofia decostruzionista, alla continua ricerca di approvazione intellettuale, non si può non tenere conto del fatto che l'ensemble composto dai quattro musicisti britannici sia riuscito a sormontare una maniera musicale ancor prima ch'essa stessa fosse parafrasata e interpretata, e a renderla un business di enorme successo.
La musica che i Led Zeppelin hanno prodotto nel corso della carriera oltrepassa i limiti imposti dalle classificazioni, soverchia i canoni stilistici e i modelli di riferimento, brucia ogni sorta di equiparazione. Nel bene e nel male. In poco meno di un anno e mezzo, i Led Zeppelin alimentarono un motore creativo in grado di generare canzoni diversissime contenute in album altrettanto eclettici, come l'intenso I e lo scorbutico II, l'ellepì di Whole Lotta Love, il primo vagito di quella creatura che un giorno diventerà famosa con l'espressione heavy metal.
Ed è proprio l'"heavy" la cifra stilistica dei Led Zeppelin, quella straordinaria capacità di unire la solidità elettrica di basso e chitarra agli elementi distintivi del complesso: la voce selvaggia di Robert Plant e la inaudita potenza di John Bonham.
Non sono stati Page e compagni a inventare l'heavy metal. Ma non è importante. Come non lo è cercare di analizzare un'opera perfetta come III. Globalmente, il terzo lavoro dei Led Zeppelin è il migliore della band, nonché uno dei più grandi album di ogni tempo, ma non si tratta nemmeno di questo.
I brani che compongono l'opera li conosciamo tutti: dal riff metal reiterato e incalzante di Immigrant Song alla malinconia sentimentale di Tangerine; dall'hard vivace, esaltato ed esaltante, di Celebration Day alla granitica Out On the Tiles; dal modernissimo blues elettrico della sofferta Since I've Been Loving You alle mitologiche Friends, Bron Y Aur Stomp e Gallow's Pole, passando per la tenerezza sfocata di That's the Way e il blues scorticato e delirante di Hat's Off to Roy (Harper).
Conosciamo le sue canzoni perché sono famosissime e bellissime, e perché -come per ogni capolavoro zeppeliniano- hanno saputo imporsi come veri e propri standard musicali della scena pop contemporanea.
Il Mito.
I Led Zeppelin sono passati alla Storia sin da subito, forse dai primissimi colpi del proprio esordio, quei tonfi secchi e precisi di Good Times Bad Times, brano d'apertura di I e dello schianto del Dirigibile.
Ma cosa resta oggi del Mito?
Ascoltare III su un vecchio giradischi è ancora un'esperienza magica, quasi surreale: ci si sente catapultati in una sorta di terra di nessuno, un luogo dove i confini tra antico e moderno si allargano e si restringono, non si è in grado di afferrare lo zeitgeist né di monitorare le emozioni. Se il postmoderno esiste, allora è un disco dei Led Zeppelin su un impianto anni '60, nel 2020.
Il tramonto degli dei. Nel giro di qualche anno band fra di loro diversissime avrebbero demolito quel muro del suono che proprio i Led Zeppelin avevano incrinato prima di tutti. I Deep Purple stavano per registrare Made in Japan. Gli Sweet iniziavano a sperimentare ritmi e sonorità dure, sfacciate e veloci. Gruppi come AC/DC, Aerosmith, Kiss, Blue Öyster Cult, Thin Lizzy, Budgie e Armageddon erano in procinto di esplodere sulla soglia della già infiammata scena hard'n'heavy. La maestria dei Led Zeppelin rischiava di cadere sotto una fragorosa pioggia di decibel. Di lì a poco non sarebbe bastato aumentare -ancora- la manopola del volume. Live at Leeds degli Who aveva aperto la strada alla follia metallica delle grandi esibizioni dal vivo, ciò che negli anni '80 sarebbe stata la norma per lo scenario hard rock/heavy metal. Dunque III rimane l'ultima testimonianza del sound grezzo e sporco che ha reso immortali i Led Zeppelin, il residuo barbarico di un'idea tanto innovativa quanto scontata, un blues di sintesi elevato all'ennesima potenza.
Un anno dopo, tutto sarebbe cambiato con il lirismo olimpico di IV. Sotto la direzione orchestrale di Jimmy Page i Led Zeppelin abbandonarono la ferocia delle origini per intraprendere un cammino artistico più complesso, sofisticato e pop, erudito e orecchiabile al contempo, a tratti sinfonico, ma lontanissimo dal caos della creazione.
Ecco, probabilmente, del Mito non resta altro che una spietata e trionfante commercializzazione: 300 milioni di dischi venduti a quarant'anni dallo scioglimento della band; una reunion storica, con Jason Bonham alla batteria e 20 milioni di telefonate disperate per poter assistere allo show, un record da Guinness dei primati.
Amore e odio sono due facce della stessa moneta. Basta lanciarla e aspettare che cada.
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