La recente reunion dei Led Zeppelin mi ha spinto a riascoltare, dopo alcuni anni di colpevole oblio, i loro album, rivedendo il loro lavoro con diversa attenzione, forse raffreddando la passione che avevo per il gruppo una decina di anni fa, ma permettendomi di riflettere in maniera più equa sul loro contributo alla crescita della musica rock ed al suo stesso sviluppo. Di qui l'esigenza della mia recensione su "Presence" (1976), pur consapevole del fatto che si tratti dell'ennesimo contributo presente, in materia, su Debaser.

Probabilmente il loro album meno noto, certamente quello meno considerato dalla critica assieme all'ultimo "In Through the Outdoor", "Presence" ci mostra un gruppo ormai privo della spinta sperimentale e propulsiva di fine anni '60, dimentico del soft hard della maturità, ed al contempo alla ricerca delle proprie origini, mediante una sorta di palingenesi del suono, ora dilatato ora addirittura pomposo, del precedente "Physical Graffiti".

Realizzato in appena diciotto giorni, l'album è probabilmente il più diretto ed immediato dei quattro del Dirigibile, caratterizzato da una urgenza espressiva e da una ruvidezza di suono che scarsamente si era udita nei loro precedenti lavori, e che venne del tutto abbandonata nell'effimero finale di carriera del gruppo inglese.

Si tratta, dunque, dell'autentico testamento sonoro del gruppo, di una riflessione conclusiva sul rapporto fra blues, hard rock ed influenze etniche del suono degli Zeppelin, quasi un compendio, affrettato se vogliamo, certamente sincero, della loro arte.

Al contempo, non possiamo definirlo un lavoro del tutto riuscito, posto che, nell'album, spiccano quattro canzoni, accanto a lavori del tutto minori, semplici riempitivi. Trascurando il track by track, lascio dunque qualche nota essenziale - come essenziale è "Presence" - sui tre brani che reputo più interessanti, come del resto la maggioranza dei critici musicali intervenuti, certo in maniera più autorevole della mia, sull'argomento.

L'iniziale "Achilles Last Sand" apre il lavoro in maniera ottimale, costituendo uno dei migliori brani della carriera dei quattro. L'interesse della canzone è tutto nel lavoro di chitarra di Jimmy Page, quasi come un'architettura che regge il canto, declamatorio, di Robert Plant: un arpeggio composto da poche, ipnotiche, note si avviluppa in un crescendo di dramma ed inquietudine, per esplodere, dopo aver sorretto il cantato, in un assolo di grande pulizia sonora, riattorcigliando la melodia su se stessa, e lasciando sfumare la (lunga) canzone nel diluito ritorno del tema iniziale. Ciò che maggiormente colpisce dello stile chitarristico di Page è la capacità di costruire una canzone su fraseggi estremamente sintetici, non pirotecnici o caratterizzati dal virtuosismo fine a se stesso di molti chitarristi rock, ma strettamente funzionali alla compattezza del brano: nella struttura della canzone la chitarra di Page occupa dunque gli spazi ritmici e solistici, come pure quelli armonici che talvolta si attribuiscono al basso, consentendo così al bassista di concentrarsi nell'interplay con la batteria, valorizzando il nervosismo percussivo della sezione ritmica. Sotto questo profilo, "Achilles..." svela in filigrana una maturazione del linguaggio degli Zeppelin, e l'assimilazione, da parte di Page, di certe forme espressive musicali del mondo africano ed asiatico, già esplorate soprattutto in "Physical Graffiti": ritmo ed armonia si intersecano in tessiture ipnotiche e ripetitive, con effetto straniante per l'ascoltatore. 

La successiva "For Your Life" è il compendio di una carriera, la rivisitazione dell'hard blues delle origini, con tutti i suoi tipici stop and go ed il suo incedere elefantiaco, ben sorretto dalla batteria e dal basso di Bonham e Jones. Qui la voce di Plant si fa indiavolata - forse la miglior prova nel disco del cantante - declamando versi ora divertiti, ora decadenti. Anche in questo pezzo la chitarra di Page conferisce un suono corposo a tutta la canzone, con continue variazioni ritmiche ed armoniche ed un assolo estremamente preciso.
Si tratta certamente di un brano di maniera, non originale né nelle intuizioni né negli sviluppi, in cui tuttavia Page dimostra le sue qualità di produttore e, probabilmente, ingegnere del suono: ci mostra, in particolare, come la violenza sonora, l'impatto emotivo di un brano possano essere raggiunti attraverso un missaggio teso a sottolineare il sound di ogni singolo strumento, quasi dissezionandolo, piuttosto che con attraverso la costruzione di un muro compatto ed uniforme.

Ultimo brano degno di nota dell'album è "Nobody's Fault But Mine", anch'esso la rivisitazione di un blues tradizionale, con l'aggiunta di una violenza sonora, di un impatto urticante che mai si era sentito nei brani dei quattro dai tempi dell'attacco di "Led Zeppelin I".
Curiosamente, la violenza sonora fa il paio con un brano dalla struttura comunque dilatata e varia, che inizia con una chitarra distorta, si nutre dei ritmi sghembi quasi come un singulto di basso e soprattutto batteria, per esplodere nel cantato indiavolato che ci racconta delle perdizione dei vecchi bluesmen. L'apice del brano è tuttavia, nei due brevi assoli di chitarra di Page, martellanti  e concisi, in cui la chitarra si distorce quasi ad imitare un'armonica a bocca, pur ricordandoci, in maniera quasi impercettibile, la sua presenza quasi metallica. Mai un brano degli Zeppelin era stato, negli anni '70, così schietto, quasi come un attacco all'udito dell'ascoltatore, mai così diretto, fino a sembrare l'opera di un gruppo di esordienti, ben mascherata da una competenza e da un mestiere da veterani.

Come già osservato, gli altri brani dell'album sono a mio parere irrilevanti, ed in ogni caso ben descritti nelle altre recensioni di "Presence" presenti su questo ed altri siti, ai quali ovviamente rinvio.

Un'ultima considerazione: rivedendo le immagini dei tre Zeppelin superstiti nella loro recente reunion, mi ha impressionato la presenza scenica dei tre, la compostezza e la lucidità di musicisti oramai oltre i sessanta: quasi come un obelisco nero su un tavolo da pranzo, i nostri costituiscono a tutt'oggi la pietra di paragone per chiunque voglia innovare il linguaggio musicale rock blues, presenza impassibile ed immota in un eterno presente.

Carico i commenti...  con calma