Una storia come le nostre, credo. Liceo, amici capelloni, tanto metallo pesante. Riverberi musicali dell'adolescenza tradotti in un esordio heavy e piuttosto cupo. Per questo cantava tenebrosa Metal Queen. E fin qui ci siamo. Una trascurabile presenza nella variegata offerta musicale nordamericana degli anni 80. Poi succede qualcosa. L'adolescenza si fa da parte e la ragazzina esce dal bozzolo tramutata in donna. Una donna allegra e positiva, più ricca di esperienze emotive ma di quelle normali, in fondo. Immagino le storie, la band, la musica, sua grandissima passione.

Ricettiva, sensibile e dotata di una femminilità leonina decide di fare il grande salto nella savana del rock duro di quegli anni e ci riesce nel 1990 dando alle stampe un disco storico per gli appassionati.

"Bodyrock" è un frullato di emozioni pure, che mette in connessione le persone perché racconta storie di ordinaria quotidianità, in cui tutti si possono identificare. Sradicando la vena violenta e autodistruttiva di genere dalla sua musica e dai suoi contenuti, Lee Aaron decide di mettersi in parallelo rispetto alla strada del rock politically correct , trasmettendo voglia di vita e di divertimento. Esempi di brani pienamente riusciti in tal senso sono "Nasty Boyz", pezzo glam d'apertura, "Watcha do to my body", "Hands on", "Gotta thing for you", canzoni spumeggianti e piene d'energia elettrica. È un rock dirompente e coinvolgente, che se fosse per me definirei power rock.

L'album contiene una meravigliosa cover del disco d'esordio dei pionieri Montrose: si tratta della fedele all'originale "Rock candy", che con la potente e passionale voce di femminile di Lee Aaron strizza l'occhio ancor di più. Un altro brano di buona forgia è "Yesterday", il secondo, sempre in linea con le descrizioni precedenti. Le due gemme del disco (che immagino suonato live sia stato la felicità di un sacco di gente, perché proprio adatto alle prestazioni dal vivo) sono comunque due ballad. La prima, e secondo me la più intensa, è la dura "Sweet talk". Asoltata con le cuffie ficcate direttamente nel cervello si può ben immaginare quanta partecipazione fisica ed emotiva ci sia stata da parte della cantante. Se ne possono percepire i movimenti delle falangi nella presa del microfono, quelli elastici delle palpebre a seconda del cantato, le posture corporali. Un disco così carnale non poteva farsi mancare questo pezzo. La chiusura delle 12 tracce è, invece, l'altra ballad "How deep", che con un sound iniziale d'atmosfera lievemente rimembrante il sol levante, affronta l'aspetto difficile di una storia d'amore. All'apice del brano si aprono i rubinetti della diga e scrosciano cascate di chitarra elettrica. Un buon lavoro.

"Bodyrock" non si può dimenticare. Ha un posto speciale, tra gli album speciali dell'anacronistico, come dicono tanti, periodo leopardato / cotonato. Non sfigura per niente dinanzi al secondo album delle Vixen e secondo me è pure meglio di quelli della più famosa Lita Ford. Sicuramente la tracciabilità della carriera di Lee Aaron non ci parla di un'artista, come dire, coerente ma di una donna in continua evoluzione che, dopo aver praticato tanto rock raffinandolo sempre più, oggi è approdata a lidi jazz. Ma credo che passerà del tempo prima di abituarmi a quest'idea. Lee Aaron è uno sticker degli anni 80. E tale resterà sempre per me.

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