Il "II concerto" di Rachmaninov e "Le Feste e i Pini di Roma" di Ottorino Respighi per l'auditorium romano del Parco della Musica che per tre sere ha visto riempire la Sala 'Santa Cecilia'.
E, insieme, Antonio Pappano, direttore in carica da soli due anni e già idolo del pubblico, e il trentasettenne pianista norvegese Leif Ove Andsnes, alto, slanciato, bello da togliere il respiro, con un gran portamento al pianoforte, e che per di più suona uno dei concerti più amati dal pubblico.
Mi batte il cuore e respiro con il solista nei primi accordi profondi e tormentati: energica espressione di una volontà, quella di Rachmaninov di rifondare il concerto per pianoforte dopo l'esperienza brahmsiana pur nel rifiuto di ogni 'modernismo'. E il pianoforte è sempre 'il' protagonista che mai indulge al ruolo di semplice, semplicistico 'accompagnatore', piuttosto ad un dialogo ininterrotto con l'orchestra. Tuttavia nonostante l'innegabile talento e la perfetta intesa tra solista e direttore, forse vorremmo di più da un giovane pianista che affronta una musica potente e vigorosa, passionale e appassionante, piena di calore e pervasa da quel melodismo lungo e cantabile tipico dell'universo sonoro russo fatto di 'apparentemente semplice' in una solidità costruttiva, una musica che sa essere struggente, nostalgica ma anche accattivante, che 'sa' e 'può'parlare.
Una interpretazione che è piaciuta al gran pubblico, ma che lascia interdetti noi 'poveri' addetti ai lavori, un Rachmaninov che nei passaggi veloci all'insegna dell'ornamento più che dell'espressività, della chiarezza e limpidezza scintillante quasi 'settecentesca' più che della cantabilità, a tratti eroico ma mai 'romantico', sembra sorridere… lui, un pianista-compositore che le fotografie ormai datate restituiscono con un piglio tanto malinconico da sembrare severo. Non vorremmo affettazione, ma una maggiore profondità meditativa forse si. Andsnes, pur con un suono curato e morbido, seppur privo di densità e corposità necessarie per affrontare la scrittura sempre piena di Rachmaninov, ha fatto rientrare quest'opera così complessa nella categoria della prevedibile 'consequenzialità', privandola così della magia e della poesia che ne hanno fatto una delle opere più conosciute ed amate. Ma è bello ed elegante nel ringraziare pubblico ed orchestrali e suona come bis una 'romanza senza parole' di Mendelssohon che riesce a riscattare l'insoddisfazione per la sua interpretazione di Rachmaninov.
E finalmente le desiderate e non provate emozioni arrivano sull'onda delle pennellate sonore della musica di Respighi. Una orchestra magistralmente diretta che vive e respira simbioticamente con il suo Direttore, l'unione dell'Uno con il Molteplice. Strumenti che si fanno personaggi, suoni e timbri che si fanno immagini: non è solo la magia che la musica di Respighi evoca e crea, è la scelta intepretativa di Pappano che sottolinea tutto ciò in cui la musica si sostanzia. Un direttore dal gesto forse non sempre elegantissimo, ma deciso, chiaro, solare, che sa essere 'guida' trascinante tra le citazioni di canti gregoriani e di stornelli popolari, tra gli effetti sonori ed i frequenti e difficili cambi di ritmo e di metro che mettono a dura prova la perizia dell'orchestra. Esecuzione scoppiettante e impeccabile che rivela alle spalle l'indiscutibile bravura dei singoli musicisti ma anche un lavoro di prove fatte in clima di apertura, franchezza e stima fra orchestrali e direttore.
Pappano ha finalmente colmato lo iato che negli anni precedenti si era venuto a creare fra l'orchestra e la figura del Direttore, abbattendo con la sua personalità capace di esigere senza pesare, la barriera innalzata dal suo predecessore Chung e immancabilmente avvertita dal pubblico che, per questo, ringrazia.
vera mazzotta
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