Siamo un nugolo di malignoni. Nessuno aveva avvisato Lene Marlin che diventare una popstar da classifica di rinomanza mondiale l'avrebbe portata molto molto lontana dalla sua Norvegia per lungo tempo. E così, fra concerti, conferenze stampa e apparizioni televisive si è sentita come una pecorella nella tana del lupo. A tal punto cosa fa? Cade in depressione. Le soluzioni sono molteplici: Prendi un volo per l'India (Morrissette), ti spogli in TV (Carey), ti suicidi (Pantaleone il ferramenta di via Gramsci). Lei opta per una più comoda clinica ma non senza essere passata per la sala di incisione.

Per chi, come me (a discapito del nome) prova un profondo senso di angoscia solamente se guarda per intero una puntata di "Pingu", si astenga dall'ascolto di questo cd. Dopo quattro anni di assenza probabilmente a causa della sua malattia, Lene Marlin ritorna nel 2003 con "Another day". Lo ammetto: ho stimato "Playng my game" (Suo primo disco) come un buon esordio, carino e non pretenzioso, per questo mi sono accostato al suo secondo lavoro con una certa curiosità. M'è andata male.

Parte la prima canzone dal quale l'album mutua il titolo e ci rendiamo conto che in fondo Lene non è cambiata: ancora quella voce sottile e dolce ancora accompagnata da quegli accordi di chitarra vagamente nostalgici. Ok, mi dico, la classica traccia-improntadigitale per riconfermare il suo stile. Avanti. Arriva "Faces" un pezzo delicatissimo che descrive il tepore dei rapporti umani veri, un'esaltazione dell'amicizia. E' il turno di "You weren't there", primo singolo estratto, che narra, avvalendosi non solo di musica strumentale, la triste storia di una relazione interrotta (causa: il disinteresse di lui) ed è anche una buona dichiarazione di intenti: far prevalere il lato più individuale, comporre canzoni capaci di richiamare con la musica le sensazioni soggettive dell'artista ed esprimere con i testi un proprio diario intimo, al fine di emozionare l'ascoltatore. Purtroppo per lei non ci riesce del tutto. Ed infatti non mi resta che arrivare alla ottava canzone per riprendermi un poco dal torpore, ossia "Fight against the hours" e a "Story" nona e ultima traccia che racconta di una persona scomparsa (ora, o si iella da sola o è per natura una povera disgraziata). Il resto si perde in un turbinio di chitarre acustiche e testi che battono il chiodo sempre sugli stessi punti:lei che ama il suo lui alla follia e non lo lascerà mai più (tema così inflazionato che Federico Moccia è arrivato persino a scriverci due libri. O tre? non saprei...) in "From this day", lei si è scocciata delle menzogne di lui e si lascia annegare nell'amarezza in "Sorry", lei che ha disperato bisogno di lui, sua unica ancora di salvezza in "My love" (O era "Fragile" della Mannoia? Boh...), lei che ama alla follia il suo lui e lo proteggerà a tutti i costi (i ruoli si capovolgono... originale davvero...) in "Whatever it takes".

Il disco finisce e io non nego di spegnere il lettore portando con me una buona dose di delusione. Sia chiaro: sono dell'opinione che ogni artista abbia la piena facoltà di trasmettere ai suoi ascoltatori ogni sua emozione, sia negativa che positiva, e di conseguenza, a mio modesto parere, non mi appare un disco di eccezionale caratura di certo non perché sia privo della benché minima ombra di solarità ma semplicemente perché sembra scivolare via senza lasciare segni e scadere, a tratti, nel più totale anonimato.

Altro che "Pingu".

Carico i commenti...  con calma