Con l'artwork dell'ultima fatica dei belgi Leng Tch'e, Orion Landau dimostra ancora una volta di essere uno dei migliori grafici del momento (almeno nell'ambito della grafica musicale): il booklet, con la sua particolare sovrapposizione di immagini in semitrasparenza ed il netto contrasto tra la forza di queste e la freddezza del bianco del pieghevole centrale (più facile da vedersi che da descrivere, a dire il vero) è un piacere per gli occhi, una di quelle cose che invogliano a reperire gli album nella loro versione originale.

Purtroppo però, per fare un buon disco non basta un bel libretto: ci vuole anche musica di qualità, cosa che nell'opera in questione pare, ahinoi, latitare. Il che stupisce un poco, viste le precedenti prove del quintetto (in particolare l'ottimo "The Process of Elimination" del 2005) che avevano presentato una band al di sopra della media del genere e che sembrava essere diventata qualcosa di più di una semplice promessa del grindcore "moderno".

Vediamo nel dettaglio questo "Marasmus": piuttosto che ricalcare quanto fatto in precedenza, il gruppo cerca di innovare la propria proposta musicale, non tanto nell'aspetto prettamente sonoro, quanto in quello compositivo. Basta dare una veloce scorsa alla durata media dei singoli brani per accorgersi di come questa sia praticamente raddoppiata rispetto a quella dei dischi precedenti: cosa che si riflette necessariamente nella struttura dei pezzi stessi, con una maggiore eterogeneità nei ritmi e nelle melodie al loro interno. Tutto ciò, di per se, sarebbe un fatto degno di lode, ché troppe sono effettivamente le formazioni (non solo nel grind) che si adagiano su quanto fatto in precedenza piuttosto che sperimentare nuove forme di espressione.

Il problema del disco in questione sta però in riff che suonano troppo lenti, monotoni e, fatto ancor più grave, falliscono nel tentativo di far presa sull'ascoltatore, rendendo le sedici tracce di questo album decisamente ripetitive, tanto che a tratti risulta arduo distinguere i singoli pezzi, che pure pretendono di apparire più elaborati e complessi di quanto non siano in realtà: per dirla tutta, spesso sembra di ascoltare una sola, noiosissima traccia.

Ancora, i Leng Tch'e avevano fatto dell'energia dei loro brani uno dei loro maggiori punti di forza, ma qui suonano stanchi, privi di mordente, decisamente sottotono (e non stupisce che poco dopo l'uscita di quest'album il secondo chitarrista, Geert, abbia abbandonato la formazione, presto seguito dal batterista e membro fondatore Sven), come se, semplicemente, avessero perso l'ispirazione che li aveva caratterizzati nel passato.

Qualche buon pezzo, per essere onesti, lo si trova, vedi "Abstained" o "Submissive Manifesto" (guarda caso, quelli più vicini ai "vecchi" Leng Tch'e), e anche la produzione, fredda, precisa e chiara al punto giusto, è decisamente buona, ma è troppo poco per dare la sufficienza a un disco banale, poco ispirato e, duole dirlo, noioso come questo. Decisamente un vero peccato, visto quello di cui i cinque belgi sono stati capaci durante la loro carriera.

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