Non avrei mai pensato di essere in grado di vedere una cosa del genere. A nemmeno vent’anni, uno dei più grandi cantautori della storia dal vivo.
L’arena è abbastanza piena, età medio-alta. I ragazzi più giovani si contano sulle dita di una mano ma questa, con un artista con alle spalle cinquantasei anni di carriera, è una cosa abbastanza ovvia.
Alle nove e quindici – orari mediterranei – lo spettacolo comincia. Entrano gli strumentisti e le coriste ed alla fine, piccolo e magro, ma con un carisma irresistibile lui, il timidissimo Leonard Cohen.
Neanche il tempo per parlare e si parte con la canzone più adatta ad un qualunque matrimonio, una dissezione dell’amore nel tempo, la meravigliosa Dance me to the end of love. La band procede affiatatissima, le coriste supportano benissimo la voce profondissima e biblica di Cohen il quale, nonostante la veneranda età di settantotto anni da poco compiuti, si inginocchia e letteralmente si trascina per il palco chiedendo amore, perdono o morte, a seconda delle circostanze.
Alla terza canzone, “Like a bird on a wire/Like a drunk on a midnight choir/I have tried in my way to be free”, esplode il palazzetto. Cohen canta ciò che fu definite il suo epitaffio con una quieta intensità che scuote l’anima. Il primo set continua con canzoni recenti, sulle quali spiccano la delicatissima Come healing, con un duetto tra l’abissale canadese e le celestiali coriste, la sardonica Going home e la rullata Anthem. Dopo di ciò, Cohen saluta il pubblico per un momento di riposo, dopo un’ora e mezzo circa di performance.
La cosa che più colpisce è l’umiltà di Cohen. Lascia spesso lo spazio agli strumentisti per dei lunghi assoli, fa cantare spesso le coriste – ma qui, forse è anche per riprendere fiato. D’altronde, non ha il tipo di spettacolo esplosivo che caratterizza altri grandissimi che ho visto dal vivo: non c’è un’energia esplosiva che ti schiaccia, ma un’implosione che ti trasporta verso di lui, ti fa sentire ogni singola sfumatura della sua voce e delle vicende raccontate nelle sue poesie.
Dopo venti minuti, lui e la band tornano in scena. La seconda parte del set ricomincia più in maniera più movimentata della prima, con Tower of song, seguita poi da una trascinata Suzanne, cantata in coro da tutto il pubblico. Ma il momento migliore della serata arriva poco dopo, con The partisan. La canzone, sofferente ed emotiva, si svolge nel silenzio quasi totale del pubblico, ed è impreziosita da un rullo marziale di tamburo durante i versi in francese, rullo di tamburo che si ritrova subito dopo nella marziale Democracy. Dopo due canzoni concesse ad Sharon Robinson prima ed alle Webb Sisters poi, arriva la sensualissima (come si poteva notare dalle espressioni estasiate di tutte le donne attorno a me) I’m your man.
Dopo arriva il momento che tutti stavamo aspettando, l’unica canzone di Cohen conosciuta a livello mondiale – anche se spesso attribuita ad artisti di caratura inferiore –: Hallelujah. La canzone non ha bisogno di descrizioni o di presentazioni, e l’esecuzione non ne ha la possibilità.
Dopo la poesia di Lorca, Take this waltz, la band se ne va. Per poi tornare – ovviamente – per un primo encore: il pubblico che può si accalca attorno al palco e canta la bellissima So long, Maryanne, per poi gridare, dopo un concerto sussurrato, sulle note di First we take Manhattan, dove la voce di Cohen raggiunge una potenza ed una cattiveria inaspettata. La seconda encore si apre con la dolente Famous blue raincoat, in un’atmosfera semireligiosa: dopo di ciò, sembra che Cohen voglia dare l’addio con la solita Closing time. Il pubblico comincia ad uscire dalla sala, ma si torna con “I tried to leave you/I don’t deny” e la sala che si sganascia di risate. Tempo per un’inaspettata cover dei Drifters con Save the last dance for me e, all’una e dieci, il concerto si chiude definitivamente.
Non male per uno che ha cominciato a cantare ed ha ricominciato a fare concerti per necessità economiche.
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