Sono passati trent'anni esatti dall'uscita di questo disco, che non può dirsi certo il più acclamato o il più noto del cantautore canadese, ma che è comunque testimonianza significativa non solo della misura poetica di Cohen, ma di come egli, come solo i grandi artisti possono, sia in grado di raggiungere altezze senza tempo e di toccare corde interiori comuni, elevando note intimiste a lirico esistenzialismo.
"New Skin for the Old Ceremony" per certuni aspetti rappresenta a suo modo una sorta di singolarità nella discografia di Cohen: a partire dalla copertina, ad esempio (l'unica, a parte quella di "The Future", del 1992, in cui egli non vi compaia ritratto) e dal titolo (dal punto di vista formale scevro dalla funzionale e sobria essenzialità di quelli dei dischi precedenti, come pure di altri ad esso successivi).
Sotto il profilo strettamente musicale, poi, è in questo disco che Cohen, pare anche per venire incontro ad esigenze di produzione, abbandona l'essenzialità degli accompagnamenti dei primi album, per inserire i brani in una cornice orchestrale più articolata (sensibile e fondamentale in alcuni brani, il rilievo dato a banjos, mandolino, clarino, archi, o percussioni...).
Lo stile è in ogni caso sempre quello scarno e disadorno, ora dolce ed ammaliante, ora graffiante ed incisivo, contrassegnato da una misura poetica altissima, che non delude.
Le canzoni di Cohen evocano il silenzio, richiamano verità, cifre esistenziali comuni, sussurrate all'orecchio di chi ascolta, o rivendicate come insistito refrain, da una voce ora suadente, ora tagliente, e per la quale, davvero, si fatìca a trovare un'aggettivazione che non finisca col punirla e limitarla, malgrado le migliori intenzioni di chi tenta di scriverne.
In questo album compaiono per la prima volta alcuni brani entrati poi a far parte del repertorio di "classici" di Cohen: penso a "Chelsea Hotel #2" (intenso schizzo nero china su foglio bianco sulla fugace relazione del cantautore con Janis Joplin), a "Lover Lover Lover", a "Take This Longing" e alla flautata, salmodiante "Who by Fire" (magica e delicata all'ascolto, ma pur così realista ed inesorabile nel messaggio in filigrana).
Nelle canzoni in cui è l'amore ad essere protagonista ("Is This What You Wanted", "There is a War", la già citata "Chelsea Hotel #2", "I Tried To Leave You" e "Leaving Green Sleeves" ne sono un esempio eloquente) si rinvengono le tracce di relazioni talora fugaci, consumate nella passione, che paiono necessariamente essersi realizzate nell'unione e compiute nel conseguente distacco, avendo la transitorietà come tratto comune.
Non c'è lieto fine nelle liaisons di cui canta Cohen, ma solo la constatazione disincantata, talora rancorosa ed amara, ch'esse sono state e non sono più. Anche l'abbandono ai ricordi, se mai vi sia, non è quasi mai accorato, ma algida, oggettiva verifica dell'inesorabile necessità per cui due persone si incontrano, si sfiorano, per poi lasciarsi. Quest'ineluttabilità del distacco, tuttavia, par quasi essere esorcizzata dall'immagine di copertina: una copula che rimanda a misteriosi significati alchemico-esoterici.
Accanto all'amore, è certo che in quest'album Cohen dia voce anche a riflessioni che riguardano strettamente la sua sfera di artista. Se è vero che "New Skin..." sia nato dopo una personale crisi artistica-umana, sarei portata a credere che di ciò si senta l'eco in "Field Commander Cohen" e "A Singer Must Die", brani in cui l'artista mette anche provocatoriamente e beffardamente in discussione se stesso, forse in risposta a presunti detrattori ("You guardians of beauty / your vision is right / my vision is wrong / I'm sorry for smuding / the air with my song").
Quest'anno Cohen compie settant'anni, la più parte dei quali dedicati alla musica, oltre che alla letteratura e alla poesia. Quasi superfluo dire quanti artisti gli abbiano tributato omaggi: da Nick Cave, a Jeff Buckley, sino al nostro De Andrè; o gli siano più o meno degnamente debitori: da Ian McCulloch, a Morrissey (quanto a quest'ultimo, segnalo un'eco sospetta di un verso di "Take This Longing", in "Hand in Glove" di The Smiths).
"New Skin..." resta un disco che trovo utile per conoscere per intero il cammino di questo artista prezioso ed intenso, e da ascoltare, magari, nei giorni meno luminosi. Proprio come capitò la prima volta a me: guardando un cielo di primavera che non voleva saperne di dare spazio al sole, preferendogli le nuvole ed una tenue pioggerellina. Qualcuno dice che non vi sia condizione migliore per ascoltare Cohen... alla faccia della disdetta del tempo.
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