Quando nel 1967 SOLC s’affaccia sul mercato americano il suo 33ennne autore può vantare una produzione letteraria assai rispettabile.
Due delle liriche (Suzanne, The stranger song), contenute nella sua prima opera musicale, sono già note ai suoi estimatori perché presenti nell’ultima raccolta poetica licenziata. I suoi due romanzi infine, “The Favorite Game” e ”Beautiful Losers” avranno una eco davvero importante sulla stampa di mezza America.
Leonard Cohen nasce a Montreal, la Gerusalemme del nord, nel 1934. Ebrea di origine europea, la sua famiglia parteciperà attivamente alla creazione di un’ intellighenzja multiculturale nella cittadina francofona. Questa particolarissima condizione familiare ed intellettuale rivela da subito un’influenza così ingombrante, da relegare sullo sfondo quella del mito del poeta con una chitarra in spalla.
Essa, da una parte imprime a fuoco vivo, cicatrici inestinguibili sulla pelle della sua poetica. Per sua stessa ammissione, Dio, sesso, mitologia e spiritualità sono i temi delle sue liriche.
Dall’altra, l’atavica sensibilità, apolitica e asociale, s’arricchisce di un mito importante nella tradizione Ebraica, quello “dell’ebreo errante”, che si proietterà innegabilmente, lungo parte del suo percorso umano, dando un affascinante dimensione bohemienne a questo solitario artista. Questa mobilità diciamo ‘mitica’, convergerà su un’altra di mobilità, quella appartenente alla più tradizionale attitudine folk:
‘Per poter scrivere libri, occorre un posto dove risiedere permanentemente. (...) Io decisi di cambiare strada per diventare... cantautore.’ . E ancora ’Le “vere” canzoni passano di bocca in bocca senza che nulla le possa fermare. Questa è la natura di una canzone: muoversi incessantemente…’
Cohen comporrà quindi tenendo ben presente le possibilità divulgative, orali, proprie della musica ‘leggera’ e sceglierà quindi per se un narrare confidenziale e di facile comunicabilità.
Io penso ci sia riuscito, quante sono in questo preciso momento le chitarre che indugiano sull’arpeggio di Suzanne?
Un cantautore quindi, che amava pensare a se stesso come ad un autore, sì popolare, eppure così autenticamente aristocratico da mettere tra sé e le altre voci d’America la distanza di uno spleen tutto europeo.
L’opening track è Suzanne. Novella Barbara Dannunziana, "Colei che tutto dona e perdona", è la figura di una donna magnetica, cantata con voce neutra e casuale. Questa sensuale protagonista sfuma, o forse s’immerge, nell’immagine di un Gesù compassionevole, fratello degli uomini che affondano.
L’accompagnamento è un archetipo della musica di Cohen, un arpeggio elementare s’inserisce in una stanza vuota, mentre violini e voci femminili paiono giungere dal cortile appena sotto.
L’arpeggio di Master Song tiene un tempo meno indugiante, gli eventi sonori, rarefatti all’inizio, con il passare dei secondi si ricompongono quasi meccanicamente.
Questa è musica per orchestrine sottomarine, tanto il suono ci arriva ovattato.
La terza composizione, Winter Lady, ha il sapore dei migliori pezzi di Donovan. Sembra l’acquarello di un paesaggio bucolico, innevato…si capisce, che si pregia di un flauto sul quale una seconda chitarra si sovrappone. Un piano, come al solito chiuso in un barattolo, fa da contrappunto. E’ una delle poche liriche che sembrano scritta da un non-professionista, complessivamente è un divertisment per depressi cronici.
Il cantautore nella song successiva da invece fondo a tutto il suo mestiere e a tutta la sua potenzialità suggestiva e ci offre The Stranger Song. Per chi scrive, il pezzo per solo chitarra e voce più bello del lp. Cohen suona l’arpeggio in maniera serrata, quasi in trance, le metafore alcune delle quali bibliche, abbondano. Il testo senza dubbio tradisce l’origine indipendente da un qualsiasi accompagnamento musicale, grazie alla bellezza delle immagini, alla complessita’ psicologica del protagonista e al pathos della storia.
Sisters of Mercy è una serenata dolcissima alle sorelle della pietà per fisarmonica, carillons e chitarra. Protettrici dei viaggiatori malinconici senza meta è dedicata agli animi che sopportano su di sé il peso di tutti peccati dell’uomo. E’ l’apologia perfetta di tutti i personaggi dostojeskiani del mondo, in assoluto il pezzo più commovente dell’album.
Chi è la Marianna della sesta canzone? E’ la donna che trascorse più di un lustro con il nostro, sull’isola di Hydra in Grecia. Finalmente una canzone d’amore estremamente ritmica e nient’affatto arpeggiata. So Long Marianne, sebbene così autobiografica, definisce sentimenti umili di gente umile, trasparente in ogni sua parola ha un andazzo da ballo con cori femminili sul ritornello. Arricchita da un accompagnamento folk-rock è quella che più s’avvicina ai dischi fatti da Cohen nella stagione successiva.
Con Hey, That’s No Way To Say Goodbye si ritorna alle atmosfere minimali d’inizio disco con l’arpeggio che medita più che raccontare. Qui il gioco si fa però un po’ piu’ scoperto. Il verso-refrain è semplice e un po’ anonimo, va però sottopelle e non ci molla più.
Teachers è un requiem cantato con voce implorante, un lamento in cui, nella tradizione del folk-blues, il cantante disegna visi dolenti e rassegnati catalogandone la povertà e chiedendosi retoricamente chi insegni ai cuori di questi uomini. Come struttura narrativa ricorda pezzi come ‘Oh sweet nuthin’’ di Reed e ‘La cattiva strada’ di De Andrè.
Ci sarebbe piaciuta come commiato dal disco ma One Of Us Cannot Be Wrong s’insinua, lasciandoci forse con un po’ di rimpianto, un gusto dolceamaro sul palato.
Cohen è il cantante di silenzi e di spazi vuoti. Confessore dei reietti e osservatore di quegli invisibili drammi personali dimenticati dalla storia e dalla politica, dalle quali infatti, sarà artisticamente avulso per tutta la carriera. Più Brel che Dylan, ha innalzato la narrazione del folk a meditazione metafisica.
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