Invecchiare non è morire.
Invecchiare morendo, dentro, è la fine.
Vecchio caro Leonard, tu la vita la conosci bene. L’hai presa, amica-nemica, l’hai chiusa nel retro di un bistrot di provincia, le hai tolto i vestii, in un angolo ti sei messo, e le hai offerto da bere, seduti a veder passare tutte le facce e le ore. E con i tuoi occhi hai bevuto, bevuto… ne hai attinto le cose più intense: l’amore, la paura, il dolore, la solitudine, il sesso, la spiritualità, la speranza, l’angoscia. E l’hai fabbricata, l’altra vita tua, con le tue parole, descritta, ma trasformata, ribaltata, con una sensibilità totale, che non è di un uomo, non è di una donna, hai estratto il nettare dal veleno che hai raccolto per strada, e ce lo hai servito, in una tazza di the alle arance, lungo un fiume desolato, dove però brillano gli occhi di lei, lei che hai amato intensamente, di puro amore platonico, ascesa nel cielo di tutti coloro che sperano in un mondo in cui Gesù torni marinaio, e i fiori non crescano più nella spazzatura.
Ma la spazzatura è dovunque, vecchio Leonard, e lo sai.
Avevi una voce lieve, con un timbro maschile, ma femminile nel modo di esprimerla, da giovane.
Avevi una foto ingiallita, sul tuo primo album, con occhi di una malinconia assoluta, dispersi, smarriti.
Ora gratti e raspi tutta la pietra nera che hai ingoiato negli anni, da quella voce caverna.
Ci sono le donne, c’è Dio, c’è tutta una strada, da quando hai cominciato a suonare la tua chitarra, a modo tuo, imparata in cinque lezioni da un maestro di flamengo che dopo pochi giorni si è ucciso.
Invecchiare, dicevo, non vuol dire finire. Tu in questo album ricominci tutto, è l’album più pieno di vita che io abbia ascoltato, che solo un uomo morente, come te, poteva comporre. Non c’è la tristezza di chi sta per partire, e lo sa, c’è il solito intenso sguardo diretto in cui tu hai sempre osservato le cose, con una smorfia di ironia e di bontà, e adesso con questo sguardo chiami la morte. Ti giri indietro e ringrazi, ringrazi le cose avute, ricuci le collane di perle e di fango intrecciate, indossi il tuo Borsalino e ti metti anche gli occhiali da sole, forse perché lì c’è troppa luce.
Canzoni di una sconcertante linea melodica, nella loro essenzialità e purezza, abbracciata e sottolineata dai cori femminili che hai sempre amato inserire, ma ora sono voci più lontane, meno carnali, più algide. Fra i suoi c’è il rimbombo del silenzio, quello che tu hai sempre amato, nostro fratello. Perché la musica, in fondo, è un eco di silenzi, che ci accoglie. Materia e antimateria.
Questo disco è un canto sommesso alla vita che si spegne, ma rimane, e nella sua ultima forza imponente, chiede di uscire ancora un volta, ed è l’ultima, dalle tue labbra. Un commiato che solo tu potevi fare, a un mondo cui manchi moltissimo, a chi del mondo ancor fa parte, o crede di farlo. Monaco in bilico fra la carne e il cielo, pazzo errante sui fili dell’assoluto, equilibrista dell’anima appesa fra l’etereo e l’inferno, hai preso le cose più buone di entrambi, hai masticato per noi la parte di fiele, e ci ha detto: miei cari, io vi canto me stesso, ed io sono voi.
Scrivevi almeno dieci versioni di un verso, per poi scegliere quello più vero.
Un commiato non è un comitato se non si riporta a galla quello che siamo stati all’inizio, la parte più vera di noi, che nasce indifesa e poi si cerca di proteggere, negli anni, perché le ferite non diventino troppe: tu le hai sempre aperte, le tue ferite, le nostre, perché il sangue, in fondo, è la cosa più pura che abbiamo.
Hallelujah, Hallelujah
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