Anni ’90. Filtrati da Debaser o da altri siti musicali specializzati, sembrano un “nuovo Eden”, un ritorno alla centralità del rock e della sperimentazione, rispetto ai mediocri anni ’80, che poi forse mediocri non furono, come ben sanno i lettori di questo sito.
Gli anni ’90 si aprono idealmente con Slint e Fugazi, con la rifondazione di un rock nudo e solipsistico, che contempla sé stesso senza rinunciare a lanciare dei messaggi; segnano la maturità di quei Sonic Youth che hanno fatto traghetto fra l’avanguardia newyorkese ed il grunge; registrano l’esplosione della scena di Seattle, con Nirvana, Soundgarden, Alice in Chains, non ultimi i grandi Mudhoney; l’ascesa del geniale Bill Corgan e dei suoi magnificenti Smashing Pumpkins; lo stoner rock dei Kyuss; l’ascesa degli At the Drive In dalla remota El Paso. Potrei continuare per pagine e pagine, senza esaurire i tesori sepolti nei ricordi, scoprendo pepite d’oro i cui bagliori riverberano ancor oggi, con il nome di Mars Volta, Queens of the Stone Age e quant’altro, ma mi fermo qui.
Vorrei, piuttosto, sfatare un mito: se esistesse una macchina del tempo, ed i trentenni e più [oltre che i più giovani] tornassero indietro al 1992-93, troverebbero una scena musicale inconsapevolmente negletta, che non è quella descritta, e prescelta dalla nostra memoria selettiva, che appunto salva dal Maelmstrom dei ricordi ciò che meglio legittima e dà un senso al nostro presente, ma qualcosa di peggiore.
Troverebbe qualche scheggia di Guns’n’Roses, qualche rimasuglio di Aerosmith da airplay, qualche grano di Seattle Sound e Pumpkins , i Sonic Youth in un’epica puntata di Avanzi della Dandini (!) poco altro e poi… il vuoto pneumatico.
L’ascoltatore medio dell’epoca, il ragazzo che si avvicinava alla musica in quegli anni non aveva grandi risorse discografiche, grandi fonti di informazione (internet era ben lungi dal venire, i computer funzionavano in dos, Word è del ’95, tutti disprezzavano il pc e preferivano l’Amiga….) e risultava un po’ in balia delle risorse del proprio negoziante di fiducia: e, qui, un conto era abitare nelle grandi città, tutt’altro abitare in provincia, dove la maggior parte di noi abita in provincia.
La musica che girava intorno, insomma, diciamolo senza ipocrisie e sentimenti nostalgici, era soprattutto pop danzereccio, techno di risulta, instant music da consumarsi nel corso di un’estate e via e da riciclare, magari, nelle piazze novembrine del karaoke di un Fiorello prima maniera. Chi voleva emanciparsi doveva avere fratelli maggiori o guru disposti a far conoscere gli artisti summenzionati, oppure puntare sul passato sicuro, su quei classici citati a modello dal pur noto Cobain: Led Zeppelin, Black Sabbath, Deep Purple etc.
Io, personalmente, non amavo affatto quel pop d’accatto, ma, almeno in un’occasione, mi trovai a battere il tempo a suon di quella musica. Fu una giornata d’agosto, ero in una piccola strada laterale di un noto centro pugliese, quando sentii provenire dall’Alfa ’75 rosso fuoco di un tale un pezzo degli Ace of Base, All that She Wants, di grande presa melodica: solo che era cantato in italiano; solo che faceva riferimento ad un tale Giovanni (Giuan); solo che era sguaiato; solo che era frutto dell’oltraggiosa demenza di un tizio, Leone di Lernia, che, partito dalla natia Puglia, si era installato nel sottobosco radiofonico milanese.
Fu una folgorazione: chiesi a mio cugino Pino di procurarmi il vinile [cosa allora possibile in alcuni negozi che “nolleggiavano” gli album] e di duplicarmelo in cassetta.
Tutti i pezzi erano parodie, fra il volgare e l’idiota, del pop dell’epoca, con traslazione dell’inglese originale in dialetto pugliese/tranese – idioma che effettivamente si presta a ciò, come ben sanno nativi e affini: cito, nell’ordine, la tracklist: Cumba' Giuan (All that she wants) - Davide (It's gonna be a lovely day) - Mo' le pigli (Love 'n' peace) - Nanz e reit (Would I lie to you) - Hauz - Ho fame (Informer) - Bevi stu-chinotto-to (Samba reggae) - Tu si pazze (Rhythm is a dancer) - Giù giù trovi a Beppe (Dur dur d'etre bebè) - Aspettando Rita (I can make it).
Ripensando a quel lavoro, a quindici anni di distanza o quasi, ora che ho perso la cassetta e che non rivedo mio cugino da qualche anno, non mi prende la nostalgia. Ma penso che Leone di Lernia sia stato, inconsapevolmente, l’ultimo vero punk italiano: the Great Pop ‘n’ Dance Swindle.
Un mito. Procuratevi (legalmente) qualcuna di quelle tracce grazie alle moderne tecnologie, visto che il lavoro mi risulta del tutto fuori commercio.
Ne beneficieranno quelli che erano giovani negli anni ’90, e vedevano i Sonic Youth solo in tivvù.
P.S.: la recensione era pronta ben prima che il Nostro, come ho scoperto ieri sera a mezzanotte, partecipasse all’isola dei famosi.
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