Dopo la svolta in un certo senso più “rock” di “Malina” i Leprous stavolta vogliono sorprendere davvero, andare su territori mai esplorati e soluzioni che probabilmente mai ci si attenderebbe da loro. “Pitfalls” è un disco tremendamente coraggioso, ha quel coraggio che ogni band dovrebbe avere di sperimentare senza paura di incorrere in giudizi negativi. È innanzitutto un disco molto vario dove ogni brano è diverso da ciascun altro, in più viene azzardato addirittura un approccio più pop, assolutamente impensabile ai tempi di “Tall Poppy Syndrome”, i Leprous non si fanno problemi a realizzare brani di presa piuttosto facile ma lo fanno senza cadere in alcun modo nella tentazione della pseudo-modernità e nei trappoloni del momento, componendo sempre secondo i propri ideali sonori; la dignità e l’impegno a rimanere sempre sé stessi sono cosa importante per i Leprous; così come hanno evitato le tentazioni indie e alternative nel precedente album qua evitano il modernismo rumoroso tipico ad esempio degli Imagine Dragons ma anche melodie in stile Coldplay.

L’approccio è decisamente leggero e rilassato, anche quando si viaggia su ritmi più movimentati, e sono essenzialmente tre gli elementi che ce lo suggeriscono: innanzitutto la voce di Einar Solberg che qui privilegia un falsetto volutamente opaco o comunque un timbro piuttosto debole concedendosi comunque a qualche occasionale urlo moderato; poi sono frequenti gli arrangiamenti d’archi che però non sono mai brillanti e vigorosi, sono sempre molto pacati e malinconici, quasi come se sparissero nel tessuto sonoro senza farsi troppo notare, eppure il loro contributo è determinante; infine il drumming di Baard Kolstad, batterista incredibile ma piuttosto sottovalutato, che ci aveva abituato a ritmiche poliedriche e forsennate, qui invece predilige uno stile molto composto e più soft, con pochi sprazzi di virtuosismo se non qualche finezza ai piatti, un drumming molto più alla maniera di uno Steward Copeland, non di certo di un Marco Minnemann. A tutto questo si aggiunge la struttura dei brani che nella maggior parte si assesta su una composta forma canzone, sebbene vi sia una manciata di brani più lunghi.

Veniamo continuamente sballottati di qua e di là fra uno stile e l’altro. I due episodi esplicitamente pop comunque sono l’opener “Below” e la centrale “Alleviate”, non a caso scelti come singoli promozionali, brani che partono con suoni particolari e ricercatissimi alla loro maniera per sfogare poi tutta l’energia in un ritornello power-pop micidiale dove Solberg caccia fuori la voce come solo lui sa fare. Ma il più catchy o quello che più strizza l’occhio a soluzioni mainstream è probabilmente “I Lose Hope”, che spiazza l’ascoltatore addirittura con ritmiche funk e disco, utilizzate però a servizio di una melodia molto leggera, come se si volesse dare un po’ di ritmo ad un brano in realtà delicato. Un’incursione simil-funk e piuttosto catchy la si ha anche in “By My Throne”, senz’altro più energica con riff di chitarra precisi e ben scanditi di matrice chiaramente math-rock, tuttavia a conferire un aspetto catchy sono gli “yeah, yeah, yeah” in falsetto cantati di tanto in tanto, poco importa se il tappeto orchestrale cerca di infangare tale dettaglio, di non far credere all’ascoltatore che c’è un’attitudine pop. Si toccano anche i Muse rockeggianti ma composti con le schitarrate frizzanti di “Foreigner”.

Ma ci sono anche brani più profondi, pensiamo alle note leggere e regolari di “Observe the Train”. Poi vi sono brani più lunghi e slegati dal formato canzone che toccano più da vicino il tipico stile Leprous; si superano i 7 minuti in “At the Bottom”, che alterna synth delicati dal lieve retrogusto anni ’80 a potenti ritornelli dove chitarra, basso e voce stavolta tirano fuori la grinta, ma anche in “Distant Bells”, dove un crescendo di suoni freddi un po’ in stile Radiohead porta poi alle energiche schitarrate finali. Il brano più vicino ai classici Leprous è comunque il conclusivo “The Sky Is Red”, 11 minuti privi di ogni logica strutturale dove tecnica e dinamismo possono emergere più liberamente. Tutto questo sempre tenendo fuori dalla porta la parola metal, una definizione forse sempre andata stretta alla band, debellata già nel precedente album e che sembra destinata a rimanere fuori dalla porta.

Tra i dischi che mi hanno tenuto compagnia nell’anno 2019 questo è senz’altro il più vario e imprevedibile, si è perfino guadagnato il primato nella mia top 10 di fine anno; non è una sorpresa, quando il nome è Leprous o Haken c’è da aspettarselo.

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