Sonorità sghembe, distorsioni tortuose, sogghigni grotteschi, cambi di atmosfera, groove tossico, funk istintivo, sperimentazione stramba, lucida follia, energia, slancio, aggressività, tensione, visioni. . . e su tutto un basso elettrico che spara in continuazione proiettili a bassa frequenza in grado di produrre piacevoli contorsioni viscerali con discontinue e scattanti scariche elettriche nel cervello.

Questa potrebbe essere una sommaria descrizione di "Of Whales And Woe" il primo disco pubblicato a nome di Les Claypool pirotecnico bassista dei Primus. Un disco che gli dà modo di sfogare completamente la sua vulcanica ed estroversa personalità capace di spaziare dalla musica, al cinema, fino alla letteratura, dato che questo cd è stato concepito durante la stesura del suo primo romanzo dal titolo "South Of The Pumphouse" e la preparazione del documentario "Electric Apricot: Quest for Festeroo" che lo vede negli inconsueti panni di regista.

Oggi però limitiamoci alla musica che non è poco. Infatti attraverso chitarra, sassofono, percussioni, vibrafono, marimba, voce, sitar e naturalmente basso elettrico - dominante e onnipresente in queste dodici canzoni - Claypool ci accompagna nel suo stralunato mondo musicale nel quale pare che convivano degli opposti. Ecco dunque sonorità che attraversano atmosfere claustrofobiche ("Back Off Turkey"), ma anche accelerazioni dal sapore funky stridente, come nella trascinante "One Better". Non mancano inoltre momenti più acidi come nell'incedere marciante di "Lust Stings" che lascia l'impressione e il timore che qualcosa di malsano stia venendo fuori dal tuo stereo. Ed è in questi momenti, in alcune combinazioni stranianti dominate dal disagio, che è difficile non pensare a Tom Waits con il quale Claypool collabora dal disco "Mule Variations". In altri passaggi inoltre il fantasma di Pomona diventa più evidente come nella folle musica da giostra di "Robot Chicken": appena 40 secondi di allucinazioni in una specie di dormiveglia tra maschere e pupazzi con una sottile inquietudine di fondo a spiarti di nascosto.

Ma non è tutto. Sottili confini tra suono e rumore si alternano a magnifiche assurdità come nel recitativo di "Vernon The Company Man" con in sottofondo un sitar ronzante e percussioni ipnotizzanti o nelle profondità di "Phantom Patriot" date dal dialogo serrato tra basso e sassofono o ancora nelle alchimie di "Rumble Of The Diesel" per non parlare del pazzesco duetto tra sitar e basso in "Filipino Ray". Insomma è difficile davvero annoiarsi ascoltando questo disco. Potreste trovarlo indigesto o affascinante, ma di certo non vi lascerà indifferenti e, nel piattume di mille proposte musicali inneggianti alla sterilizzazione della fantasia, di per sé questa è già una bella notizia.

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