Sì, alla fine mi avevano convinto.
Non che ne avessi molta voglia, rimanevo anzi piuttosto scettico e sul senso della cosa (soprattutto in base a considerazioni aprioristiche) e sulla tempistica dell’occasione (visto che l’avevo saputo solo due giorni prima). Però che Diavolo! In fondo mi faceva piacere rivederli e, sapendo benissimo che la resistenza maggiore consisteva in quei grammi di troppo di misantropia che zavorrano da sempre il mio groppone, decisi di smettere il mio saio d’ asceta dei poveri e di avviarmi alla serata. Sì, alla fine mi avevano convinto.
La temibilissima CENA-CON-GLI-EX-COMPAGNI-DELLE-SUPERIORI!!!
Contro ogni pronostico, guidando verso il locale designato a tale ricorrenza, mi sentivo piuttosto baldanzoso e, per trattenere il più possibile questa disposizione di spirito, ho puntellato i miei buoni propositi con l’ascolto di “Halleluhwah” dei Can.
La serata procedeva bene. Le femminucce erano ormai donne fatte e finite, i maschietti erano rimasti quei debosciati perdigiorno che ricordavo e la conversazione rimaneva su temi da cazzeggio.
C’era solo una cosa che stonava un pochino: quei sorrisi obliqui che un mio ex compagno elargiva, di volta in volta, a noi tutti. Non saltava immediatamente all’occhio, ma nei suoi ponderati e misurati interventi nelle discussioni si insinuava un’aria di vaga superiorità e presunzione: bella casa, lavoro prestigioso, vacanze à la page, moglie perfetta, figli ancora più perfetti.
Credo che questa mia sensazione fosse condivisa da tutto il resto della combriccola, infatti, all’ennesima medaglia sociale ostentata con precisa noncuranza, il gelo piombò sulla compagnia ed i pensieri di ognuno furono risucchiati in un gorgo interiore che nemmeno “Aumgn” (tanto per restare in tema “Tago Mago”) avrebbe potuto provocare.
Dopo un paio di minuti (che sono sembrati almeno diciassette) mi sono alzato e sono uscito a fumare una sigaretta: è lì che ho pensato a lui, a Ivan Il’ič voglio dire.
Pubblicato nel 1886, “La Morte di Ivan Il’ič” è un lungo racconto (o romanzo breve, fate voi) che si inserisce nella seconda fase degli scritti di Tolstoj. La sua famosa “crisi spirituale” era deflagrata solo quattro anni prima con la pubblicazione della “Confessione”, controverso ( e poderoso) auto da fè in cui Lev prendeva le distanze dal clero e dalla Chiesa ortodossa russa per intraprendere un personalissimo cammino di anarco-misticismo-evangelico che permeò tutti i suoi lavori da allora in poi.
All’apice della fama e dell’influenza, furono in molti ad abbracciare (coscientemente o meno) i precetti di questo nuovo messia tanto che persino Gandhi ammise che, in gioventù, gli scritti del “nuovo” Tolstoj (con il quale intrattenne un fitto scambio epistolare fino alla morte dell’autore) furono decisivi per la sua formazione politica e spirituale.
Vi devo confidare un segreto: a me, questa seconda fase, non ha mai convinto. Certo, il vigore e la potenza di Tolstoj sono rimasti intatti. Non nego che, per esempio, “La Sonata a Kreutzer” (forse la sua opera più dostoevskijana) o “Resurrezione” (il terzo, e ultimo, dei suoi grandi romanzi) siano opere degne del suo genio, ma ciò che viene meno è il sublime narratore, il ricercatore instancabile delle contraddizioni e degli inevitabili parossismi che la condizione umana porta con sé. Come se la sua innata capacità di mostrarci la vita per quello che è (“ I Cosacchi”), i flussi e riflussi storici (“Guerra e Pace”) o le porcherie asfissianti dell’alta società (“Anna Karenina”) si piegasse al verbo dei Vangeli, unica e inesauribile fonte taumaturgica che avrebbe mondato dal peccato e dalle sofferenze la miserabile razza umana.
Insomma, sottoscrivo quanto diceva Čajkovskij: “Una volta, col semplice racconto di un episodio della vita di tutti i giorni, sapeva suscitare le impressioni più profonde. Adesso commenta testi e pretende un monopolio esclusivo nelle cose di fede e di etica. Il Tolstoj di un tempo, il narratore, era un Dio; l'attuale non è che un sacerdote.”
Per me, il vero capolavoro del Tolstoj-profeta è proprio “La Morte di Ivan Il’ič”. E’ qui che la sua smania di redenzione dell’umanità è temperata (ed equilibrata) da un respiro più circoscritto e bilanciato, focalizzandosi sulla storia di un grigio e sbiadito procuratore di provincia.
E la storia è terribile.
Archetipo di tutto l’ottuso arsenale di valori borghesi, Ivan Il’ič ha condotto la sua vita in una comoda e piacevole prigione dorata (ben contento di starci e canalizzando tutte le sue energie per rimanerci): la morale? “Era determinato nell’eseguire ciò che riteneva essere il suo dovere; e il suo dovere era tutto ciò che le persone altolocate ritenevano tale”; il lavoro? “Non abusava mai del suo potere, anzi cercava di mitigarne i termini; ma la consapevolezza di questo suo potere e la possibilità di mitigarlo costituivano appunto l’interesse principale del suo incarico”; il matrimonio? “Ivan Il’ič sposandosi faceva cosa gradita a se stesso e, al contempo, faceva ciò che la gente dell’alta società riteneva giusto fare”.
Nella prima parte del racconto Tolstoj abbonda con i “piacevolmente”, i “comodamente”, i “decorosamente”, usandoli in tutte le declinazioni possibili e immaginabili, costruendo un impasto narrativo vergato a fuoco da una feroce ironia.
Non che i colleghi (e la moglie) del buon Ivan siano diversi da lui: supini verso l’autorità, affettati verso i colleghi, accidiosi verso gli affetti e viziosi verso i piaceri. Insomma, un putrido microcosmo di piccoli uomini degno di Maupassant o di Ibsen.
Simbolo della vacuità della vita di Ivan Il’ič sono gli oggetti con i quali egli ha un rapporto quasi erotico e monomaniaco e, proprio questa sua sfrenata passione per i ninnoli e gli orpelli, sarà causa della sua morte: infervorandosi per una tenda sistemata male, Ivan cade dalla scala sbattendo il fianco sulla maniglia di una porta. Un dolore, dapprima leggero, ma che, nel corso dei mesi, crescerà a dismisura, facendo capire a Ivan che qualcosa di terribile e nuovo, qualcosa che non aveva calcolato e che è tutt’altro che “piacevole”, è entrato (per restarci) definitivamente nella sua vita: la Morte.
La scrittura di Tolstoj nella seconda parte del racconto (con la falce della Nera Signora che incombe ogni giorno di più sulla testa di Ivan), si fa febbrile, concitata. Dettagli clinici, miserie fisiche e morali, indifferenza dei famigliari e colleghi. Tutto attira il lettore nel nero gorgo senza ritorno: la pagine vibrano e secernono sudori freddi e, di tanto in tanto, siamo tentati di toccarci noi stessi il fianco per assicurarci che tutto vada bene.
Ivan, a poco a poco, capisce che il dado è ormai tratto e non c’è che un numero che possa uscire. Sconcertato, annientato e furioso, solo negli ultimi giorni matura la sua personale illuminazione: la sua vita era stata una menzogna colossale (la vedeva incisa su ogni volto che si recava a fargli visita) e gli unici autentici attimi felici erano stati quelli della sua infanzia.
Unica sua consolazione in questi ultimi giorni sono le amorevoli cure di Gerasim, giovane e risoluto contadino che, con la sua semplicità d’animo unita ad una profonda intelligenza intrinseca, è il solo a non essere infastidito dalle sofferenze di Ivan, cercando anzi di mettersi completamente a disposizione, senza nessun secondo fine, del moribondo.
Non è un caso che Gerasim, il solo personaggio con un minimo di umanità, appartenga alla classe più povera: Tolstoj nutriva una grande fede (come Dostoevskij del resto, ma anche come il primo Turgenev) sul fatto che la rigenerazione morale della Russia sarebbe dovuta necessariamente passare attraverso la spiritualità e la vita contadina.
Distrutto nel fisico e nell’animo, troviamo Ivan nell’ultima pagina sul letto di morte che ripete dentro di sé delle parole. La riga finale è l’ultimo chiodo che serra la bara: “<Finita la morte> disse a se stesso <Non c’è più> Trasse un respiro, si fermò a metà, si distese e morì”.
Ora, io spero davvero che il mio ex compagno di classe non sia un novello Ivan Il’ič. Insomma, forse ho esagerato: poteva essere semplicemente un meccanismo difensivo dettato dalla timidezza oppure stava regolando dei conti (di cui non sono a conoscenza) con il suo passato.
Forse aveva solo bisogno di essere scosso: a fine serata ero fortemente tentato di prestargli “Tago Mago”, ma, a mia onta, avevo troppa voglia di ascoltare “Bring Me Coffee or Tea” sulla via del ritorno.
Carico i commenti... con calma