Stavolta Liam Gallagher ce lo chiede anche nel titolo.
Perché lui? Ma sì, perché no. E alla fin fine è difficile dargli torto. Una carriera che sembrava in picchiata libera (anzi, praticamente ferma) improvvisamente risollevata da un album solista di clamoroso successo (nella prima settimana in UK ha venduto più di tutta la top ten messa insieme), una ritrovata visibilità e (soprattutto) una proposta finalmente di nuovo qualitativa.
L’accettazione dei propri limiti è stato il primo passo verso la rinascita: Liam, tacciato da tanti come arrogante e supponente, ha fatto un passo indietro ed ha accettato di lavorare con dei co-autori (e che co-autori, capitanati da Greg Kurstin, negli ultimi anni gallina dalle infinite uova d’oro), prendendo coscienza del proprio ruolo di frontman ed inteprete eccezionale ma con qualità di songwriter certo non sufficienti (anche se, alcune delle cose migliori dell’esordio “As You Were” erano farina esclusivamente del suo sacco).
Ad un album del Gallagher più giovane ci si approccia sempre allo stesso modo: Liam è estremamente derivativo, ed è fiero di esserlo. Quando descrive una canzone, fa sempre riferimento ad un’ispirazione classica (l’onnipresente Lennon in testa), e rispetto al pur ottimo esordio stavolta serviva qualcosa in più. Accantonate le iniziali velleità di un disco più crudo e punk rock con orientamento Stooges, Gallagher ha cestinato tutto ed è ripartito da capo assieme allo stesso team di co-autori e produttori dell’opera prima. Ed il risultato è stupefacente.
“Why Me? Why Not.” (titoli ispirato a due dipinti di John Lennon che Yoko Ono ha regalato all’ex frontman degli Oasis) è un disco nettamente superiore al pur ispirato predecessore, ed in generale uno dei dischi rock più belli degli ultimi mesi. Ed a tratti riesce persino a spiazzare. Certo, i tratti somatici son quelli (nel rock blues del singolo “Shockwave” e nello spaccato anni ‘70 di “The River” c’è tanto degli ultimissimi Oasis, così come “Once” è una ballad pazzesca che non può non far pensare a Lennon), ma quando si osa si osa con intelligenza (mastodontico il lavoro di Andrew Wyatt in tal senso, che sceglie sempre l’abito giusto per la voce di un Liam mai così in forma) e capita di cadere dalla sedia quando parte un basso martellante in odore di Depeche Mode (!) nella bonus track “Invisible Sun”, o quando una chitarra in pieno Morricone (!!) porta ad uno spoken word (!!!) nella torrenziale “Gone”, posta in chiusura.
Nel mezzo, tanto classic Gallagher: “Now That I Found You” (probabile prossima hit) è frizzante e sbarazzina e ringiovanisce il mancuniano di almeno venti anni, proponendo una melodia freschissima, una chitarra solare ed intelligente ed un ritornello da mandare a memoria dopo mezzo ascolto. “Halo” e l’altra bonus “Glimmer” rimandano ai tempi dei Beady Eye, la prima addirittura alla disastrosa “Bring The Light” (ma con uno sviluppo dieci volte superiore). “Be Still” e la titletrack sono il cuore rock dell’album, “Alright Now” (ancora Lennon) e “Meadow” (George Harrison) quello psichedelico (pazzesco l’arrangiamento di Kurstin per quest’ultima), “Misunderstood” (altra bonus) porta Liam ad altezza Robbie Williams (quello sorprendente di “Escapology”, non quello degli ultimi bolsi tentativi solisti).
“Why Me? Why Not.” restituisce a Liam Gallagher un ruolo saldo nella musica rock che conta, contribuendo a ricostruirne definitivamente la credibilità artistica.
Brano migliore: Once
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