Una foresta che brucia, inesorabilmente, vulcani impazziti che potrebbero esplodere da un momento all'altro, un terremoto noise. Il nuovo album dei Liars è il ruggito di una natura impazzita: forse sì, hanno accantonato i deliri post-noise di un impressionante e incomprensibile "Drum's Not Dead", ma "Sisterworld" è lo strabiliante ritorno di una band che mai mi aveva fatto tanto sconvolgere, anche quando entrava nei meandri della psiche con episodi più o meno schizzati.

"Sisterworld" concentra l'apocalisse in 42 minuti, e lo fa con una grazia spettrale, quasi come se si trattasse del destino dell'ascoltatore. Basta la strarodinaria "Scissor", in apertura, per distruggere l'anima in mille pezzi: il canto di sirene ammaliate, quasi il ricordo di una "Submarine" Bjorkana ripreso da un Devendra Banhart disperato, viene stracciato da un ruggito rock improvviso, che scuote, strugge e disperde emozioni sulla sabbia. E' il grido di un naufrago che non può scappare dalle sue sensazioni.

E "Sisterworld" non da tregua: la bellissima, seguente "No Barrier Fun" ruggisce su giri di basso, improvvisi movimenti di archi e campanellini fatati, ma non è esente da quella sporcizia poetica che ghiaccia il sangue. Macerie.

Marcio è il gorgo che soffoca di "Here Comes All The People", un mostro che morde con fauci appuntite, balzando da un momento all'altro da un ritmo di spezzato indie rock a giri di piano che incantano, per poi soffocare, sempre più, contro un maleficio fottutamente portato a buon termine. E il maleficio si concretizza con la straniante "Drip", enfatica e introspettiva, e nel grottesco punk di "Scarecrows On A Killer Slant" che spara violenza come una trivella nel cervello. Le radici di una foresta in fiamme che si aggrappano saldamente alle tue caviglie, ti incantano, ti seducono, ti uccidono dentro, prima che una sbilenca litania quasi natalizia ("I Still Can See An Outside World") non arriva persino a commuovere nei suoi ariosi cori di ubriachi poeti, persi nei sentieri scuri della foresta. E il basso che accarezza, la chitarra che impazzisce.

E poi arriva, come un pugno, un'unione tra bellezza carnale e stralci di rabbia, "Proud Evolution", inspiegabile e bellissima, è la prova della grandezza di una band in grado di inquadrare l'impensabile e di renderlo magnifico. Cosa che succede anche nella successiva ballad rock, "Drop Dead", macabra, accompagna la caduta degli alberi arsi dal fuoco musicale, ci schiacciano, evitandoci ogni redenzione persino nel trittico finale: "The Overachievers", sgraziata e di bassa qualità, ma pregna di sangue e morte come poche altre canzoni, la suadente nenia spettrale "Goodnight Everything", che fa le moine mentre sventra e, in conclusione, il gran finale di un'incantevole "Too Much, Too Much", esempio magico di bellezza irraggiungibile e sfibrante, perchè talmente rarefatta e impossibile da rivendicare ogni illusione. E termina l'incubo. La foresta smette di bruciare, finalmente è pace. Dentro ci sentiamo migliori, e non vediamo l'ora che la nostra anima torni ad ardere sotto queste note.

Un crudele incantesimo che tutti vorrebbero subire.

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