Scrivere recensioni non è più il mio forte e, tempo fa, ammisi di non voler più partecipare a questo “gioco”

Ma tutti cambiano: Pippo Baudo, anni addietro, collaborò con Mediaset dopo anni di fedeltà alla RAI (dove l'ho già letta questa?) e Claudia Koll, sì proprio lei, è tranquillamente passata dalle braccia di Tinto Brass a quelle di Nostro Signore.

Vedendo una sola recensione dedicata ai Life of Agony, HO DOVUTO darmi da fare.

Qui si scrivono doppioni ma, triste realtà, ci si dimentica troppo in fretta di band che hanno dato l'anima e il culo negli anni passati. Siano essi gli ’80 o i ’90.

Eccoci, allora, a parlare di "Ugly" dei newyorkesi Life of Agony.

Secondo capitolo per la band di Keith/Mina Caputo (avete letto bene, il singer ha cambiato sesso) e album totalmente diverso dall'irraggiungibile "Rivers Runs Red".

Dai monolitici blocchi di hardcore misti a doom Sabbathiano, una vera e propria goduria per le mie orecchie , i nostri sterzarono, nel giro di due anni, verso un sound particolare e certamente più aggraziato. Correva l’anno il 1995.

Qualche riff in stile Iommi è ancora presente, certo, ma a farsi largo tra queste dodici tracce è un alone grigiastro di tipo grunge. Alice In Chains e Stone Temple Pilots, infatti, baleneranno nella vostra mente più di una volta durante l'ascolto del fantastico "Ugly" (copertina e titolo stupendi).

Al tutto, però, va aggiunta una vena intimista ed emozionale, testi incentrati sulla vita del cantante e tanti ricordi d’infanzia.

Un disco emo-grunge con alcune aperture metalliche. Un disco da non sottovalutare.

Molti, ai tempi come oggi, criticarono la svolta della band. Errore! I nostri non cambiarono casacca per salire sul carro dei vincitori, tanto è vero che la parola "vincitori" stride terribilmente se inserita accanto al nome degli sfortunati Life of Agony.

Un cambiamento volontario e spontaneo, dicevo, e un netto allontanamento dalle derive hardcore-metal, quelle derive ci hanno fatto conoscere il quartetto newyorkese nei primissimi anni ‘90.

Vi segnalo la malinconica apertura di "Seasons" , ma anche canzoni di grosso calibro quali "I Regret", "Lost In 22" e la title track. Chiude le danze la lugubre "Don't You (Forget About Me)", traccia che sembra uscita dal cappello dei Type O Negative meno metallici. D'altronde, leggendo il booklet, scoprirete che Sal Abruscato era il batterista comune alle due band.

Cosa aggiungere ? Dopo “Ugly” il quartetto non riuscì più a ripetere la sua grande impresa: coniugare il metal (e l’hardcore) con tematiche e sonorità “intimistiche”.

Il terzo “Soul Searching Sun”, Anno Domini 1997, si dimostrò fin troppo pallido e privo di idee.

Una band da riscoprire e da amare. Soprattutto per le prime due perle della loro striminzita discografia ufficiale.

PS: Scommettiamo che il buon De…Marga… ha visto dal vivo anche loro?

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