Mi scopro, mio malgrado, metallaro dello shoegaze.

[Salta il paragrafo se sei passato, giustamente, solo per leggere del disco dei Lillys]

Ascolto Sway, nuovo disco di quelli che penso siano gli esponenti di spicco della scena statunitense contemporanea - però attenzione ché gli USA non sono il mondo, e nel mondo ci sono ragazze e ragazzi come gli Echo Lake, che meriterebbero grande considerazione - e ci trovo gli otto paccheri di suonone e distorsione assolutamente piacevoli che pensavo di trovarci. Bene, basterebbe. Poi però il moto della cervellosi viene fuori, come sempre, costringendomi a riflessioni sul perché qualcosa che sembra avere tutto, ma veramente tutto in regola per stregare un fuzz/tremolo/reverse-addicted, invece resta lì bellino-ma-non-so e soprattutto - pericolosissimo - bellino-ma-prima-era-tutto-meglio. Ora, i "quando c'era lui i treni volavano" non fanno proprio al caso mio, né vostro, anche perché Kevin Shields c'è ancora, e lui, comari e compari sono l'immanenza; sono passato, presente e futuro dello shoegaze - e MBV, lo scorso anno, ce l'ha ricordato. Così, mentre resta certificato che Shields è l'attitudine incarnata, è lo spirito del genere fattosi uomo e ne è allo stesso tempo il -core, s'insinua il sospetto che Nick Bassett - ma non dico per fare confronti, ci mancherebbe - uomo dentro e dietro gli Whirr, nonostante si ingegni tra polemiche frivole e frasi ad effetto per mostrarsi trve o roots o -core o cagate a caso, sia in fondo un pivello-internet con la fissa del rumore. Un pivello che finora era stato buono - anche ottimo - e diligente nel recinto del di genere, ma che a tentare di uscirne, di cercare un'attitudine propria, abbia soltanto svelato una mostruosa latitanza d'ispirazione e una notevole vena da poseur. Ricordiamo che Bassett suona anche nei Nothing, il cui esordio, anch'esso uscito quest'anno - bellino e tutto - soffre esattamente dello stesso male di Sway: ed è ovvio, dato che suonano uguali. Ricordiamo inoltre che Bassett ha suonato nei Deafheaven, che nell'umile opinione di chi scrive sono praticamente una posa condita di chitarre. Comunque do un'occhiata al cellulare e lo sfondo è sempre la copertina di Loveless, ma ormai neanche me ne rendo conto; più che la mia coperta di Linus, è la mia maglietta dei Manowar: la indosso per riflesso incondizionato e per un senso di appartenenza che va oltre la consapevolezza e oltre il naturale disprezzo per qualsiasi atteggiamento anche vagamente scenestre, qualsiasi ostentazione e posa. Non mi sento come la tizia che conosco, quella che alterna senza disinvoltura, a seconda del locale, hoganine e borsettina vuitton regalate da mammà a smanicate dei Ramones, e credo che le sia capitato di cambiarsi d'abito in cabine telefoniche o affini nell'arco di una nottata, come una superwoman della deficienza. Mi sento invece come il tizio incontrato ad un matrimonio che indossava la sua maglietta dei Manowar, appunto; la indossava, non la sfoggiava come spesso si scrive per imperizia sinonimica. Perché è giusto e naturale così, e il contesto spazio-temporale, in questi casi, sta a zero.

Tra discorsi intorno alle pose e all'attitudine, polemiche, risse, pestoni, rigide ortodossie, semi-nostalgismi e improvvisamente spiccato senso di appartenenza, sono un metallaro dello shoegaze. Ricordo con piacere, a proposito, di quando un amico mi informò della morte di Ronnie James Dio, e io per cazzeggiare dissi qualcosa tipo "ah, finalmente"; al che lui, serissimo: "ma lo sai che secondo dove lo dici ti accoltellano?". Quindi intendiamoci, non credo che accoltellerei qualcuno solo per un "Bilinda Butcher è una troia" detto così en passant, comunque da quel giorno esco pochissimo e non parlo mai con nessuno.

[Salta invece i paragrafi a seguire se in realtà non ti interessava il disco dei Lilys, e torna magari al primo paragrafo se per caso avevi voglia di leggere qualcosa sul nuovo Whirr]

Nel disco dei Lilys c'è innanzitutto tanta sofferenza travestita da eleganza elettronica.

No, scherzavo.

La prolississima premessa - e mi scuso - era più o meno necessaria, perché Kurt Heasley e i suoi Lilys sono stati spesso liquidati come emuli Lovelessiani punto. È vero: probabilmente perché all'esordio e desiderosi di immediatezza d'identificazione, tra citazioni e evidenti richiami, i Lilys ci misero del loro per alimentare il pregiudizio; è indubbio anche che si parla del disco più simile a Loveless mai inciso - l'argomentazione sta quasi tutta nell'attacco di Tone Bender - anche più dello stesso MBV, a tratti. Ma qui il contesto temporale è rilevante, eccome, perché In the Presence of Nothing esce nel millenovecentonovantadue, ad appena un anno da Loveless. Nessuno nega l'influenza del disco dei My Bloody Valentine, né quella degli EP e degli LP che lo precedettero, ma sarebbe ingiusto non prendere in considerazione il fatto che Heasley potesse essersi nutrito delle stesse vibrazioni di Shields, pur se dall'altra sponda dell'Atlantico, pur se mediate dalle ondate di suono dell'illustre capostipite: vibrazioni molto C86, tra le altre cose. Troviamo quindi canzoni, riff, idee, che ci fanno pensare al rumore come a una delle componenti di un processo creativo complesso, baciato dall'ispirazione; ispirazione che va ben oltre il compulsivo comprare pedali e provare a suonare delle cose sepolti dal marasma: l'argomentazione sta quasi tutta nell'irresistibile refrain di Claire Hates Me, meravigliosa. E anche quando il sound è solo in funzione di se stesso e si libera dalla forma, nell'imperioso misticismo dei dodici strumentali minuti di The Way the Snowflakes Fall, sentiamo emanare linfa vitale da ogni rintocco di tom, e il tappeto riverberato di basso in reverse, slide, armonici e arcane distorsioni chitarristiche sembra anticipare di un anno lo spirito del capolavoro Flying Saucer Attack. Tracce ancora evidenti di post-punk nel basso marziale di Periscope, che emerge da un oceano di Holy Grail - o parente - per irrompere in un twee-pop che sarebbe stato a puntino nella citata compilation NME; e ancora il ronzio avvolgente e tremolante della chitarra di Elizabeth Color Wheel, forse il miglior pezzo, che incorpora tutti gli archetipi dello shoegaze e li spinge verso vette di espressività raramente eguagliate. Armonizzazioni vocali sospirate - le più tipiche: voce maschile e voce femminile - tappeti di synth che emergono a tratti da spesse coltri del consueto sovrapporsi di chitarra-ambiente e ritmica canonica - canonica ma sempre straordinariamente tagliente: una sovrapposizione che dà luogo a nitide, visionarie esplosioni di creatività, come nei fuochi artificiali coloratissimi in chiusura di Collider.

Per niente in polemica col nuovo per il nuovo - facile ironia sul conservatorismo metallaro a parte - ma sconfortato da tanti esercizi di stile e manifestazioni di vuota prassi, torno alle radici e ripesco questo classico: un po' per riabilitarlo e ricordarlo; un po' perché penso che per chi avrà avuto veramente la pazienza di leggere fino in fondo questo enorme segone a due mani - cioè una fissata o un fissato come me - oltre che per me stesso, In the Presence of Nothing possa essere un fedele compagno e una fonte d'ispirazione costante.

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