La rabbia e la malinconia, la violenza e la disperazione negli occhi di un bambino delle elementari. Un bambino che sogna di diventare camorrista, che crede non ci sia alternativa. Riguardandolo oggi, questo film mi apre le porte della memoria, riaccende emozioni quasi sepolte, di quando lo avevo visto (e rivisto) - a mia volta bambino - e quelle scene di degrado e menefreghismo, quella vita sgarrupata e quella lingua tagliente dei bambini di Corzano mi colpivano ogni volta nel profondo, lasciandomi un senso di ribrezzo, una pietà che iniziavo a comprendere, quasi una fascinazione esotica per quei luoghi dove non esistevano regole, dove la sopraffazione e l'insulto erano buona norma.

Ci sarebbero davvero tante cose da dire su un cinema di questo tipo. Il rischio dello stereotipo è dietro l'angolo, qualche accenno retorico non manca di certo, ma è presto dimenticato di fronte a un'umanità che si lascia guardare dentro in questo modo, in trasparenza, senza infingimenti. I piccoli attori che parlano dialetto sono un colpo al cuore, oggi che il cinema si sta sempre più allontanando dalla vita vera, dai racconti delle piccole miserie quotidiane di tante parti d'Italia. Viene da ridiscutere anche la stessa paranza dei bambini di Saviano, perché qui non c'è nulla di epico, nulla di ammaliante, ma solo il realismo a volte tragico e a volte comico di bambini che ancora non si sono rovinati la vita, ma sono irrimediabilmente indirizzati sulla strada del dolore. Sono però provvidenzialmente privi di maschere eroiche, sono solo bambini, la cui trasparenza d'animo consente sguardi lucidissimi e puri sulle tante meschinità circostanti.

Le amputazioni familiari, le tendenze criminali, l'immaturità degli adulti o le loro condizioni di vita disastrose si riverberano senza pietismo o enfasi nei temi di scuola che vengono sottoposti al protagonista (Paolo Villaggio). Ciò che emerge è una grande dignità, una compostezza inspiegabile in mezzo alle degenerazioni, un'accortezza per le cose umane che contraddice certe cicatrici inferte al tessuto sociale. Dietro ogni conflitto a fuoco c'è una madre dolente che prega, che spera nell'aiuto di un professore per riportare suo figlio nell'alveo della civiltà. C'è una sorellina che deve diventare donna anzitempo, c'è un fratello che si macera nel rancore.

Alla fine, quello che resta è un piccolo vocabolario sul significato del fare l'insegnante. Che non è necessariamente quello di stare nei quartieri popolari a farsi martire per la scuola, ma più semplicemente quello di andare a prendere i ragazzi uno a uno, ovunque essi si trovino, metaforicamente. Capire le pennichelle del bimbo che si alza all'alba per aiutare il padre a raccogliere cartoni, scherzare su un babà con lo scolaro paffuto, ridere quando ti danno del "ricchione", dare anche un ceffone al piccolo criminale quando non c'è altra strada. Diventare cafone se è il caso. Persino tentare di rubare. Ovviamente un mondo che sembrerà lontanissimo a molti, ma che non è così lontano, anche senza andare in provincia di Napoli.

Uno svolgimento del tema "come si fa il professore" che dovrebbe essere paradigma, perché ogni classe ha i suoi Raffaele e i suoi Totò. E forse anch'io, quando entro in aula, quando leggo i temi dei miei ragazzi, in qualche modo lascio risuonare in me il ricordo antico di questo film, di quel professore cicciotto che, gettate le armi inutili della disciplina inflessibile, si scopre capace di ascoltare e di perdonare. Scopre che è necessario lasciare un pezzo di cuore ai propri alunni, e non è detto che serva. Quel professore vede Raffaele dal treno, allontanarsi in motorino all'orizzonte, e non sa che ne sarà di lui. Se il seme darà frutto o morirà poco dopo.

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