I primi due dischi dei Linkin Park sono brutti. E' questa una considerazione estremamente inattuale, ma andrebbe stampata su depliant e imbucata nella cassetta di ogni famiglia italiana. Sono brutti. Consacrano alle porte del 2000 un genere che è già stato inventato e strapazzato nelle più polimorfe varianti già almeno da un lustro, in una forma, che è stata gestita meglio persino da band come i Limp Bizkit. Non c'è motivo logico o storiografico per cui i Linkin Park sono stati iniziati al santuario degli idoli cosmopolitici, essi si presentato come un ammasso di pus e ormoni puberali sotto forma di band nu-metal, pronti a far urlare di gioia i tredicenni, nei quali gli stessi componenti del gruppo sembrano immedesimarsi. Chitarre senz'anima, suoni elettronici figli del campionario audio di windows, screaming fine a se stesso che sembra voler dire "io sono adulto, spacco un casino".

E' proprio da queste frequenze sonore imbarazzanti che nasce la necessità da parte della band di abbandonare il loro status di eterni Peter Pan per indirizzarsi verso realizzazioni più mature. E' questo il caso dell'imbarazzante "Minutes To Midnight", che sembra stare al rock, come Taylor Swift sta al country. Con "A Thousand Suns" invece i Linkin Park riescono a delineare di loro stessi un profilo quasi dignitoso, di gente che mostra addirittutra di saper comporre brani, i quali in certi casi hanno persino successo nel farsi notare, fuoriscendo dalla loro natura di sottofondi rimediadi durante le nostre interminabili partite a "Campo minato". Ma nell'istante in cui sembrava lecito aspettarsi qualcosa di più, ecco che arriva "Living Things". Gli strati di correttore e gli shampi volti a mascherare i brufoli e le tinte da liceale, vengono soppiantati da magliette con sopra stampati robot tamarri, raggi laser pacchiani e frasi esistenziali puerili che lasciano un certo senso di imbarazzo. Ancora non vi è chiaro di cosa si stia parlando? Osservate la copertina del disco. Ogni espressione logica viene demolita in appena mezz'ora di canzoni, a favore di un sillogismo che va contro qualsiasi razionalità, urlando con sguaiato entusiasmo: "abbiamo impiegato anni per fuoriscire dal nostro ridicolo involucro adolescenziale...è ora tornare indietro" o meglio ancora: "noi siamo maiali, smettiamola di cucirci una criniera da leone e accettiamo la nostra realtà da suini".

Fortunatamente, "Living Things", pur essendo anni luce lontano da quel mezzo tentativo riuscito di "A Thousand Suns", non ha nemmeno la stessa carica distruttiva della decenza tipica di "Minutes To Midnight" o "Hybrid Theory". E' semplicemente un disco mediocre e come ogni disco mediocre presenta un paio di pezzi riusciti, "Lies Greed Misery", che recupera la struttura della potentissima "Wretches And Kings", costruendoci sopra una alternativa valida, sebbene sensibilmente inferiore, "Victimized", la quale pur incentrando la sua sostanza sulle urla di Bennington, è in grado di non cadere nel tipico pezzo cafone e ridicolmente hard alla "Bleed It Out", e brani inequivocabilmente fastidiosi, tra cui spiccano "Roads Untraveled", che porta alla mente le melodie tipiche delle celebrazioni della chiesa cattolica (e stiamo parlando di un gruppo definito metal), e "Powerless". Ma al di là del concetto di mediocrità, di cui questo disco sembra essere un saggio esplicativo, è un altro l'elemento che mantiene sempre viva la sensazione che ci sia qualcosa di costantemente sbagliato durante l'ascolto: una ragnatela di suoni elettronici pastosi a metà fra i toni monofonici del "Nokia" e le composizioni della pianola "Bontempi", che rivestono ogni pezzo di una personalità infantile e stucchevolmente romantica. Estremamente esplicativi in questo senso sono brani come "Burn It Down", "Lost In The Echo", "Ill Be Gone" e "In my remains", rinnovati sfoghi ormonali, che fanno partorire al mixer un ragazzino infatuato che alle due di notte canta: "baby, loving you is my destiny". Apprezzabili seppur non completamente autosufficienti sono "Castle Of Glass" e "Skin To Bone", condivisori della stessa struttura in crescendo, e "Until It Breaks", che fa pensare a una b-side di "A Thousand Suns".

Inutile aggiungere altro riguardo a un disco che, più tenta di convincerci della sua validità, più infonde tra il pubblico una tenera compassione, come un gattino che tenta invano di salire una scala, accompagnato da un sottofondo infarcito di chitarre elettriche.

Voto: 4/10

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