Scordatevi le atmosfere da spiaggia caraibiche, scordatevi di trovare un sottofondo per il joint con gli amici. Questa è l'altra faccia del reggae, come Linton Kwesi Johnson, il poeta del dub, la insegna: un sound denso e notturno, ipnotico e dilatato, insaporito con sapidi aromi jazz nell'accompagnamento e nelle frequenti code strumentali. In questo contesto si stagliano parole taglienti come machete. Parole recitate rigorosamente in patois con piglio ora declamatorio, ora dimesso e ora beffardo, per tratteggiare con colori scuri la realtà di un immigrato giamaicano in un contesto di povertà e segregazione (realtà tra l'altro vissuta in prima persona).

Dopo le vette di "Forces Of Victory", il terzo album dell'ex membro delle pantere nere inglesi è un nuovo successo qualitativo dove la title-track apre le danze con la sua vertigine mesmerizzante e quasi lisergica che fa il paio con gli echi cupi ma languidi di "Street 66". Degni di nota anche gli sprazzi di lirismo che emergono nel commovente madrigale urbano di "Loraine" e nell'accorata elegia di "Reggae Fi Peach", omaggio vibrante e commosso a una vittima del potere.

Pura poesia (anzi, dub poetry) che fa di Linton Kwesi Johnson un degno erede dei suoi progenitori, i griots dell'africa occidentale, trapiantato nella giungla di cemento bagnato londinese; il cantore dei senza voce nel ghetto di Brixton, di chi ha lasciato la terra dei padri per fuggire dalla fame solo per rimanere invischiato a Babilonia, in un mondo che non li comprende, li irride e li teme e che inevitabilmente li porterà a dire che "Inglan Is A Bitch".

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