Un po’ tutti aspettavamo una reunion dei Liquid Tension Experiment. Chi semplicemente perché mancavano più di vent’anni dall’ultimo lavoro, chi perché il progetto era durato troppo poco, chi invece perché insoddisfatto dalle produzioni recenti del gruppo di derivazione (i Dream Theater); fra questi ultimi individuiamo ulteriori diramazioni, come ad esempio chi non sopporta più la voce di James LaBrie o chi invece rimpiange il drumming sincero e passionale di Mike Portnoy.

I Liquid Tension Experiment erano stati una breve parentesi di fine anni ’90, nata dall’incontro fra le due colonne portanti dei Dream Theater John Petrucci (chitarrista) e Mike Portnoy (batterista), il tastierista Jordan Rudess (ai tempi non ancora nei Dream Theater) e il maestro bassista e stickista d’esperienza Tony Levin (noto per aver partecipato alla reunion dei King Crimson negli anni ’80 oltre che richiestissimo turnista). Due grandiosi album strumentali apprezzati da critica e fan, poi l’ingresso di Rudess in pianta stabile nei Dream Theater (galeotto fu il progetto…) e la fine del progetto, fatta eccezione per un breve ritorno con dei concerti nel 2008.

L’anno scorso avevamo già visto Portnoy riconciliarsi artisticamente con Petrucci prestando le proprie bacchette all’album solista del chitarrista. Qualcuno sognava un suo ritorno nei Dream Theater ma questo è stato categoricamente smentito, è stato però il preludio al grande ritorno dei Liquid Tension Experiment, dove Portnoy ritrova anche l’altro ex-compagno Rudess. In pratica la formazione del quartetto è la stessa ma con la curiosa differenza che mentre ai tempi era Rudess a non essere membro dei Dream Theater ora invece è Portnoy a non esserlo.

Conoscevamo il progetto come una specie di Dream Theater senza voce, dove il virtuosismo usciva con più vigore e fantasia, con meno metal e più fusion, e con più spazio alla sperimentazione e all’improvvisazione. Come li ritroviamo in questo terzo album? Beh, non c’è dubbio che siano loro, esplosivi, sofisticati e ricercati come sempre, chi ha amato i primi due album non avrà problemi ad apprezzare questo. Stavolta però c’è da dire che si sono comportati un po’ più da Dream Theater, e questo potrebbe a tratti far trasparire una mancanza di originalità. L’album è infatti più duro rispetto ai precedenti, se i primi due avevano pochi elementi metal questo ne ha qualcuno in più, Petrucci usa la mano pesante con la sua chitarra in diversi brani, anche se il metal non diventa certo il genere principale dell’album. Al contrario si assottiglia di parecchio la vena fusion, il tocco vellutato ed elegante sembra lasciare più spazio ad un’impostazione più rocciosa. Emblematiche di questa piega sono “Hypersonic”, “The Passage of Time” e “Key to the Imagination”. La prima ha come base un gagliardo speed metal dove Petrucci martella su e giù le corde e le rapide scale di note vi si avvolgono di conseguenza. La seconda ha un tocco rozzo e tamarro che pare piuttosto insolito per il supergruppo e sembra invece imparentato con i Dream Theater più commercialoidi di fine anni 2000, periodo “Systematic Chaos”. Nella terza abbiamo invece il Petrucci più tagliente, quello che vuole fare l’estremo ma alla fine non lo fa più di tanto, anche perché Rudess lo mette a freno con notevoli aperture rilassate dal sapore jazz e persino con suoni arabeggianti, suggellando il brano stilisticamente più vario del lotto. Nella prima e terza traccia citata la differenza sostanziale (quella che ci permette di non parlare di “una qualsiasi strumentale dei Dream Theater”) la fa Tony Levin, che a mio avviso dà il meglio di sé quando si concentra sull’uso del Chapman Stick; ha quella cosa che a John Myung nei Dream Theater forse manca, il groove, il modo in cui martella le corde non può certo lasciare indifferenti. Un qualcosa di theateriano ce l’ha anche “Beating the Odds”, che però ha un tocco più di matrice hard rock, è un brano neutrale, fluido e scorrevole, dove suono roccioso, virtuosismi e aperture melodiche si susseguono in maniera molto naturale.

Dream Theater 2.0? Beh, metà album effettivamente è un po’ troppo Dream Theater e meno Liquid Tension Experiment, ma c’è spazio per i momenti di sperimentazione ed originalità. “Liquid Evolution” è un episodio fusion estremamente rilassante dal sapore orientale e meditativo, dove tutti i quattro musicisti maneggiano con delicatezza assoluta i propri strumenti, un brano quasi da seduta di yoga o da locale etnico, ha all’incirca gli stessi ingredienti che aveva “Osmosis” nel primo album, sembra il suo gemello riuscito. Buona dose di pazzia invece in “Chris & Kevin's Amazing Odyssey”, un folle duetto fra Portnoy e Levin, semplicemente Levin si diverte a far rumore con un contrabbasso elettrico e Portnoy lo accompagna con colpi prima sterili e poi potenti e precisi. L’altro duetto è invece quello fra Rudess e Petrucci in “Shades of Hope”, una ballad melodica dove Rudess scorre senza fragore le dita sul pianoforte e Petrucci letteralmente “canta” note lunghe e cariche di pathos, tirando ancora una volta un sonoro schiaffo a chi continua a definirlo un chitarrista senz’anima; anche qui c’è aria di déjà-vu, è un po’ troppo simile a “State of Grace” dal primo album, ma per le orecchie è sempre un piacere.

Poi c’è la rivisitazione della celebre “Rhapsody in Blue”, la composizione per piano e orchestra jazz di George Gershwin del 1924. Chi mi conosce sa benissimo della mia tendenziale contrarietà all’inserimento di cover in un album di inediti, ma ciò non vuol dire che non ascolti comunque con interesse; qui il quartetto fa un lavoro piuttosto geniale trasformando la composizione in un’energica opera rock mantenendo comunque intatta la sua natura jazz e classica.

Il discorso sarebbe finito qui ma i Liquid Tension Experiment rincarano la dose. Alle 8 tracce e 61 minuti della regular edition si aggiunge un bonus disc, che non si può certo considerare tale né si può farne a meno. E qui ritorna il discorso degli IQ di “The Road of Bones”, non puoi offrire altri 55 minuti di materiale inedito e far credere alla gente che si tratti di un bonus. Anche perché questo secondo disco tira fuori a pieno regime un elemento importante del quartetto, l’improvvisazione. 5 tracce di totale e pura improvvisazione, dove il metal viene totalmente inibito e prende nettamente piede la vena fusion, di certo non è roba adatta ai deboli di cuore e a chi non ha pazienza; ammetto che anche a me a volte è calata spesso l’attenzione durante l’ascolto, riconosco che il tutto tende a diventare un po’ monocorde, ma qui ammiriamo i quattro strumentisti mettersi a nudo più che mai. Non escludo che la scelta di presentarlo come bonus disc sia dovuta proprio alla sua difficile digeribilità, perché la band non è nuova a questo: anche il primo album conteneva un’avventurosa improvvisazione di ben 28 minuti, ma avvertirono simpaticamente l’ascoltatore della sua eccessiva pomposità, invitandolo a stoppare il lettore in anticipo qualora non avesse abbastanza fegato. Ma un vero ascoltatore non si fa intimorire dai numeri, dalle durate, dalla pomposità, si fa semplicemente trasportare, è proprio la mancanza di trasporto, di dedizione e di immedesimazione che rende a molti difficile ascoltare, nella musica come nelle conversazioni quotidiane.

Pomposi o no i Liquid Tension Experiment sono resuscitati e sono più vivi che mai.

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