Non poteva esserci sberleffo più eloquente del titolo di questo disco. Sì, perché la sua protagonista non si può certo dire sia una ragazza felice. Forse non si può dire neanche il contrario. Tenterò di spiegarmi meglio.

Lisa è un’artista capace di dare significati sempre nuovi alla parola dolore: il suo atteggiamento nell’affrontare le brutture che la vita propone sembra quello di chi, invece di cullarsi nella sua stessa malinconia, finendo per piangersi addosso, osserva se stesso dall’esterno, quasi con distacco, con un misto di rassegnazione e autoderisione. Non è esattamente, o forse non è “semplicemente”, infelice: piuttosto è una commentatrice, a volte cinica, a volte autoironica, della sua stessa infelicità. Ciò è subito chiaro ascoltando l’incipit di “Bad Attitude”, in cui ogni verso è al contempo una rassegnata presa di coscienza e la derisione di chi si strugge per trovare un senso alla sofferenza (“You wish it was sunny but it’s not…ah ah ah”). Quando il frastuono di violini e chitarre termina dopo l’ultimo ritornello (“You could start over, it’s never too late”) una melodia commovente si insinua tra gli arpeggi delle chitarre mentre Lisa sembra trovare l’unica possibile via d’uscita nel ricordo dell’infanzia (“You would give anything to change back to when you laughed easy and all your moves were childlike”). Simile nell’umore è la successiva “Destroy The Flower”, una istantanea ancora più eloquente della sua fragilità (“it’ll never come out now, and that’s all your fault”).

Queste confessioni da brividi, a differenza di ciò che avviene nei suoi album successivi, sono immerse in un bailamme di suoni distorti frutto di una produzione evidentemente più elaborata e di una attitudine più rock. Il ritornello beffardo e semplicissimo di “Puppet” è immerso in un tripudio di chitarre e effetti di studio d’ogni tipo, “Everyone’s Victim” (“I am everyone’s victim”) una sorta di “Loser” di Beck al femminile, è frastornata dalle continue dissonanze degli strumenti a corda. “Cowboy”, una solenne e innamorata ballata country affidata unicamente al suo bisbiglio e alla chitarra acustica, sembra quasi un improvviso momento di silenzio, di tregua, prima che inizi la trilogia di capolavori del disco, “Happiness”, “The Earth” e “Around the world”, che sfumano l’una nell’altra come in un unico flusso di coscienza. La prima è una pungente riflessione sulla vita (“Give it up, try again, ain’t life fun…happiness”); la seconda una lenta serenata che stringe il cuore quando alla chitarra si aggiunge un celestiale intreccio di mandolino e violino; l’ultima una filastrocca delle sue, non meno sconsolata (“what a waste to feel the way I feel”), ma che può contare comunque su un ritornello che sembra un gioviale girotondo.

La cadenza irresistibile di “Sychophant” non impedisce alla canzone di essere turbata da continui incursioni dissonanti del violino e tastiere dai suoni spettrali. Altro momento più disteso è l’innocente melodia di “The Dresses Song”: Lisa sembra essersi quasi dimenticata del dolore che la tiene in vita, eppure anche qui si scorge una leggera inquietudine, una dolorosa constatazione della propria fragilità e, conseguentemente, la necessità di un “altro” a cui aggrapparsi (“Take me to your castle, it feels so good in there, I’m much safer in your castle, mine got lost somewhere”).

Il finale di “The Darkest Night Of All” ha la dolcezza delle ninne nanne che i bambini cantano a se stessi quando hanno paura del buio, perché il buio della mente è davvero la notte più scura di tutte. Da sberleffi implacabili quali immaginavo fossero, queste canzoni finiscono per essere semplicemente struggenti. Ain’t life fun?

Carico i commenti...  con calma