La scoprii il novembre di due anni fa, spulciando tra banconi impolverati in una fiera del disco della mia città. D'altronde è quello l'unico modo per andare più a fondo, cercare e provare. E la sera stessa mi ascoltai fino alla morbosità due dei più poetici e tormentati lavori di Lisa Germano; e ne rimasi scosso, come violentato della mia stessa ragione e ingannato dai miei stessi segreti. Fino a che punto questa sacerdotessa emaciata avrebbe scavato la mia mente, con le sue melodie-giocattolo e con la sua voce da bambina, rivelandosi profeta di cose che nemmeno intuivo parte di me, sebbene esistenti da tempo come falene dormienti. Così, voracemente feci mia e solo mia ogni sua canzone serbandola come un bellissimo gioiello di cui parlare sottovoce; mai avrei pensato di vedere di persona quella donna dai contorni sbiaditi e dalla voce di bambina, finché un giorno non vidi per caso del suo tour europeo che toccava molte delle principali città europee eccetto dell'Italia, ovviamente.

Decisi così di partire, eccitato dalla folle avventura e dall'euforia del viaggio per la volta di Ginevra, incantevole cittadina moderna circondata dalle acque glaciali del suo lago. Davanti a Place des Volontaires un palazzone grigiognolo non si presentava in alcun modo come sede del concerto, ma il luogo doveva essere quello. In effetti il locale si chiamava Usine, e una fabbrica abbandonata la poteva benissimo essere. Mentre mi apprestavo a cenare, sentii sgattaiolare da una porticina laterale alcuni versi di Wood Floors: il mio cuore avrebbe voluto correre verso di lei e cogliere il momento in cui ero da solo e lei faceva le prove, ma con una straordinaria forza di volontà, mi diressi stoicamente al primo fast food del centro, sentendomi un pò migliore. Non disturbiamola.

La sera era calata e con essa il freddo superbamente tipico della zona lacustre, freddo pungente e anestetico e purificante. Seduto sui gradini della stessa piazza di gusto parigino attendevo la sera; qui conobbi un altro italiano, il che mi parve incredibile - non ero dunque l'unico folle? Parlammo speditamente e con avidità, come accade quando due anime vengono colte nel punto sensibile delle stesse passioni di cui vogliono consumare l'ardente attesa. Anche lui mi confessò che contava sul fatto di essere giunto da così lontano - Milano, addirittura - ma io l'avevo sconfitto per una manciata di chilometri (questo mi rinvigorì lo spirito). Ci scambiammo i contatti di posta elettronica - è ormai questo il varco che sottintende o meno una raggiunta amicizia - ed entrammo, praticamente soli, in un corridoio coperto di fumo, fino ad un salone scuro con il bar e una cinquantina di sedie posticce, delle quali occupammo sollevati la prima fila - temevamo ingenuamente di non riuscire a vedere niente - e, al contrario, ci occupammo calorosamente con lo sguardo della gente (poca) che entrava. Li contavamo sulle dita, e ciò ci turbava su una angoscia materna.

Erano circa le 11 e, dopo i Sand Over Skara, una band molto particolare che consiglio vivamente, ecco che saltava fuori Lisa Germano. All'inizio non la riconobbi: dal momento che ormai cento persone ci potevano anche essere, mi aspettavo una plateale comparsa con inchino e saluti. Invece no - sistemando la Roland ed attenta a non inciampare contro l'amplificatore, solo dopo qualche secondo si arrestò e si sedette con un risolino pudico e salutò sommariamente. Era magrissima ma sul viso uno sguardo stanco non celava comunque gli occhi freschi e sereni. Attaccò. E da sola, alternandosi tra tastiera e chitarra (seppi che in Spagna un mese prima circa il bassista la aveva soppiantata di punto in bianco) fece di quella sera un istante. La voce che carezzava le note di piano campionato, nella sua sommarietà sconvolta da ripetuti attacchi di tosse, creava comunque un'atmosfera unica che esaltava in modo sorprendente la genuinità dal vivo che solo l'imperfezione e lo sbaglio potevano valorizzare. Tra filastrocche incantate e melodie grevi la mia anima danzava spedita da ogni singola nota e ogni diverso respiro, e si ottenebrava come in una danza macabra di cui quella voce fanciullesca era l'amaro accompagnamento. D'un tratto smisi di scattare foto: come una foto poteva catturare l'illusione ascetica di quella processione?

Tante volte si fermò per bere quante per introdurre le dolci canzoni del suo ultimo lavoro - In The Maybe World. Presentò la canzone dedicata a Jeff Buckley annegato nel Mississippi, quella per suo padre e infine a Miamo-Tutti, il suo gatto - superstar ai tempi di "Excerpts From a Love Circus", l'album più gattofilo di tutti - morto da poco: durante gli ultimi istanti della sua vita gli cantò questa canzone, che in effetti è "actually written by Miamo-Tutti". Parlava timidamente e a scatti come un folletto male ambientato: le sue mani che si contorcevano esprimevano più delle sue parole.

Ad ogni modo il concerto fu fantastico, e tutti erano felici: cantò soprattutto i suoi ultimi due dischi più la stessa Wood Floors che avevo udito soavemente dalla porticina laterale, e alcune eccezioni: Simply Tony, Small Heads e la richiesta The Darkest Night Of All (in effetti alcuni di Torino - ebbene sì, di Torino - domandarono Victoria's Secret ma non furono accontentati. Alla fine Lisa si congedò, lasciando intendere chiaramente che sarebbe arrivata subito per gli autografi e le foto. La chiamai mentre sbocconcellava delle patatine. Con un inglese non perfetto le rivolsi qualche parola e lei si mostrò gentilissima. Facemmo la foto insieme e ci salutammo caldamente, con il proposito di rivederci. Così, mentre altri massicci Italiani l'avevano già agguantata e circondata, salutai il mio nuovo amico e mi inoltrai nella vacuità della notte alla volta dell'hotel Warwick, riflettendo su ciò che sarebbe stato una stupita esperienza, un fiore variopinto ed esotico tra il giardino dei ricordi.

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