I Litfiba si erano fatti conoscere nei primi anni '80 con l'Ep "Eneide" di stampo teatrale e successivamente con il bellissimo “Desaparecido”, vera opera prima del gruppo toscano con Pelù alla voce, Ghigo Renzulli alla chitarra, Gianni Maroccolo al basso, Antonio Aiazzi alle tastiere e Ringo De Palma alla batteria. Nel 1987 esce il capolavoro assoluto del gruppo pari solo al precedente del '85 che non verrà replicato nell'inferiore “Litfiba 3” del 1988. “17 Re”: 16 capolavori, un doppio album, new wave, post punk, visioni decadenti e irritanti, sensualità, oscurità, apocalisse, guerra… Un cuore di rosso fiammante, spinato, circondato dall'infinito allucinante.
"Resta", "Sto oscillando su una lama fra orizzonti e vertici", è il primo urlo di Pelù e Co: "Resta una parte di me quella più vicina al nulla". Ognuno può comprendere le parole come vuole, io ci vedo una profonda inquietudine e perdizione di un uomo. “Re del Silenzio”, secondo brano, apre con tastiere e un giro di basso inquietante: restavo a guardare nel silenzio", "ti prego lasciami solo!", "cuore senza amore", "Perchè non so più amare", sono frammenti di solitudine consapevole di una generazione. Più felice, apparentemente, sembra "Cafè Mexcal e Rosita", intrigante nelle musiche, come nel testo. “Vendetta” è il brano seguente, uno degli apici assoluti dell'album. L'intro di acustica precede un insieme di immagini sussurrate con dolcezza e urlate con sicurezza, tra cambi di ritmo, fra il sincopato, l'acustico e i suoni mediterranei. Il testo è semplicemente poesia: lampi, fuoco, Dio, Notte e giorno, il protagonista è sicuro che continuerà a vedere vendette sanguinose, guerre inutili, "ho conosciuto Dio che giocava con il cielo, dimenticando l'aria il fuoco ed il giorno". Una dichiarazione d'amore avvolta da un tappeto sonoro nettamente romantico è quella che Pierrot fa alla Luna (“Pierrot e la Luna”), che s'innesta ad ambientazioni progressive sopratutto nel bellissimo finale. Riconducibile alle atmosfere pseudo scherzose di “Cafè...” è “Tango”, dalle omonime sonorità, davvero particolari, e con la solita inquietudine di fondo cantata in maniera viscerale da un Pelù ispirato, come d'altronde in tutto il disco. “Come Un Dio” è il secondo apice del disco. Un brano che trasporta l'ascoltatore in un luogo infinito, che forse fa paura; un uomo che se fosse Dio farebbe gli uomini come sono con “occhi per non vedere e bocche per non parlare”.
Cori apocalittici in lontananza e un ritmo lento, ci portano a “Febbre”, non posso stare qui, l'ossessione di essere malato, alieno e insensibile il cuore è solo un muscolo passivo, vento ghiaccio, vento fuoco..., altro apice oscuro a metà del disco. “Apapaia” è incentrata sulla forza delle ideologie, difficili da cambiare e spesso anche da rispettare, che servono per sopravvivere. La sonorità è tipica della ballata in progressione, come le successive “Univers” ( un pò noiosa) e “Sulla Terra” (più ritmata, a tratti reggae). In quest' ultima vengono presi in esame i lati oscuri del nostro mondo, ancora le guerre, un altro cuore che non batte piùe bestie in guerra, sulla terra, sulla terra. “Ballata” , fra suoni ombrosi e malinconici, grande Maroccolo e il suo lavoro di basso, praticamente protagonista, rievoca echi e suoni orientaleggianti e riesce a diventare suggestiva e poetica. Con questo brano si chiude la parte, per così dire, calma per dare sfogo al gran finale, ancora una volta allucinante e cattivo come l'inizio. “Gira Nel Mio Cerchio” , con il suo intro di chitarra e l'urlo di Pelù, ci apre un mondo contorto, un incubo, un inferno di cambi di tempo, fermate improvvise e cavalcate inaspettate, distorsioni, tastiere impazzite e assolo vorticosi. Una sorta di esperienza simile ad una setta e ai suoi strani riti: sul corpo macchie blu, sette otto, gira nel mio cerchio. Pelù abbaia e si fa cattivo come un “cane” nell'omonima canzone seguente, quasi tre minuti di pseudo-metal-punk, non so come definirlo(?) con un Renzulli davvero in forma, condito da tastiere forse eccessive e da una batteria secca e decisa. Con “Oro Nero” la ricerca musicale non si arresta e l'oriente sembra essere ancora più vicino, il testo sembra affrontare uno dei temi centrali di tutto il disco, la guerra di conquista.
Finalmente siamo ala fine. L'ultimo brano inizia calmo per poi entrare nel turbinio di un incalzante giro di violini, per poi fermarsi di nuovo e poi di nuovo ripartire. “Ferito” è la guerra degli indiani: "grande capo bianco dice che noi siamo pronti, per attaccare!!!" . Bella e straziante la coda finale, simile per certi versi a quella di “Guerra” nell'album precedente. Un riff ripetuto fino all'infinito come infinito rimarrà lo spazio intorno a quel cuore, quello in copertina, spinato e pregno di dolore di guerre, silenzi, morti e vendette. Capolavoro difficile e sofferto.
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