Ci sono dettagli che nonostante per loro natura “periferici” o “sfuggenti” offrono talvolta una specie di feritoia attraverso cui scorgere interi scenari. Ammesso che il titolo di un’opera possa essere considerato un dettaglio, è a mio parere il caso di “Essere o Sembrare”: in senso meta-testuale (cioè della musica che parla di se stessa), coglie l’onda d’urto della critica che ha polemicamente investito le vicende più recenti del gruppo, e svela la poetica sottesa all’intero lavoro “siamo consapevoli che ci state osservando, giudicando, apprezzando o criticando”. Perfetto, su una copertina davvero molto elegante e raffinata (altro dettaglio superficiale-ma-non-troppo), il titolo offre la Prospettiva Nevsky da cui osservare la storia di un gruppo, la sua musica e, in fondo, la storia del rock italiano degli ultimi due decenni nelle cui trame i Litfiba sono ben inseriti. Il contenuto musicale, sicuramente non è l’”opera prima” di un “nuovo” gruppo, né probabilmente (per ora), l’affermazione decisa di quella che il chitarrista Federico (Ghigo) Renzulli ha definito la “quarta fase dei Litfiba”, cioè quel segmento di circonferenza che segue gli esordi (“Guerra”, “Eneide di Krypton”, “Yassassin”…), la “trilogia del potere” (“Desaparecido”, “17 Re” e “Litfiba 3”), e la “quadrilogia degli elementi” (dall’epopea del grande successo commerciale di “El Diablo” a "Mondi Sommersi", più “Infinito”, “Croce e Delizia” e varie raccolte). In tal caso si tratta di un disco interlocutorio, di transizione verso qualcosa d’altro, in cui conta di più cogliere il formarsi del disegno del nuovo profilo artistico e del nuovo status della band che non il valore in sé delle singole canzoni.
“Cambia il vento, cambiano i confini”: i Litfiba stanno provando ad attualizzarsi, e a ri-contestualizzare la loro proposta nello scenario della musica italiana del 2006. Un contesto assai strano, peraltro, in cui accanto al recupero colto di certo passato “d’autore” e di certo patrimonio etnico e popolare, si sta verificando un’importazione sempre più massiccia e meno (culturalmente) “filtrata” di forme e canoni stilistici anglo-americani. In tal senso poco importa stabilire se le canzoni dell’album siano pop-songs ammantate da sonorità rock, piuttosto che rock con una componente pop più evidente (così è sempre stato dai Joy Division ai Nirvana). Superfluo è anche notare che il “punto debole” sono le lyrics, anche perché “in una canzone, le parole sono solo la labile traccia lasciata dall’intreccio di soprasensi e sottintesi che costituiscono il vero spessore di un brano” (M. De Dominicis). Questi sono i Litfiba di oggi: situati in una “terra di nessuno" tra i Negramaro e i Coldplay, con le reminescenze ancora vivide della New Wave italiana (Diaframma in primis), i Litfiba stanno imboccando quell’arco di cerchio che dovrebbero riuscire a chiudere. Non sapendo ancora se tale cerchio “ha perso il suo centro” è (a mio parere) sicuro che la chiara consapevolezza di Renzulli di poter incastrare la proposta musicale dei Litfiba nello spazio artistico e di mercato che si colloca tra mainstream, simulacri storici e “nuove” tendenze rappresenta una garanzia. Se così è, come traspare dagli episodi migliori dell’album (“Sottile Ramo”, “La Tela del Ragno”), è assai probabile che tale nuovo corso porti alla riaffermazione dei Litfiba. Se così non è si tratta “solo” di un grande gruppo che, al di là del giudizio storico, ha tutto il diritto di continuare ad esistere.
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