Ma possono i soli Pelù-Renzulli affibiarsi nuovamente il nome di Litfiba, nella pubblicazione di un disco di inediti? Possono sì, se si accetta la tesi che il nome sia validamente di loro appartenenza per tutto ciò che di massiccio e valido hanno prodotto negli anni novanta, pur variando i musicisti di supporto - ridotti al ruolo di turnisti - ad ogni piè sospinto. Allora, superando il discorso nome (che, è vero, meriterebbe maggior approfondimento), concentriamoci sul disco.

A tredici anni di distanza dal disastro musicale ed umano di "Infinito", il rock a firma del duo toscano torna a vibrare negli stereo dei fan. E di rock effettivamente si tratta, come Pelù aveva solo accennato nei suoi due ultimi lavori solisti: dal riffone pachidermico di Lo Squalo alle accellerazioni di Anarcoide, il ritmo della batteria è standardizzato in 4/4, le tastiere e il basso fanno il loro sporco dovere, ovvero esaltare gli aficionados della band. I vari Daniele Bagni al basso, Pino Fidanza alla batteria e Federico Sagona alle tastiere hanno il compito di 'scrivere' il tappeto sonoro, sul quale Pelù innesta la sua ritrovata espressività vocale e Renzulli può sparare i propri assoli, tutti piuttosto "riconoscibili" nello stile e riusciti, pur nella loro semplicità. Esulano dal discorso le ballate La mia valigia e Luna dark, e la bonus track Dimmi Dei Nazi, presente solo nella versione "deluxe" del disco, niente più che un esercizio di stile musicale. Poi il sinth nel ritornello di Grande Nazione, questo sì curioso, e il groove divertito di Brado che ricorda Imparerò (direttamente da "Mondi Sommersi"). Il resto è davvero poca cosa. Il testo della già menzionata Lo Squalo è uno dei più insulsi mai scritti da Pelù ("ho mille denti e adoro la mia fame/sono lo squalo il boia del mondo/e alla fine mangerò anche me stesso"), Grande Nazione tenta di essere la nuova Maudit, ma risulta piuttosto di maniera ("centocinquantuno anni di mafie e massoni/noi siamo il paese dei balocchi per i ricchi/repubblica basata sulla furbata incentivata"). Piero soddisfa i suoi bisogni blasfemi in Anarcoide, dover però i versi "nè Dio/nè padroni/nè politici/in tivvù" rischiano di sembrare ridicoli, in quanto recitati da un cinquantenne tre volte padre, e non da un quindicenne in fase ormonale.

Nell'opener Fiesta Tosta il riferimento al "bunga bunga" arcoriano appare alquanto gratuito e non solleticherà gli appetiti dei fan più smaliziati, quelli della prima ora e del Pelù che si faceva querelare da Spadolini. In ogni caso, dedicando il disco "all'amore", i Litfiba stessi sembrano non prendersi troppo sul serio. Il loro intento era quello di fare un disco di sano rock 'n roll, e ci sono riusciti. Chi, colpito dall'energia sprigionata nei concerti dell'ultimo biennio, si aspettava un "Terremoto" aggiornato ai suoni del 2000 rimarrà deluso. Chiunque invece si accosterà a questo disco con curiosità, e senza pregiudizi nè positivi nè negativi, potrebbe rimanere piacevolmente sorpreso.

Sperando che il prossimo disco (già annunciato da Pelù, mai domo di demagogie che eccitino il popolo dei fan, come il terzo di una trilogia degli Stati, i cui primi episodi sono Stato Libero Di Litfiba e questo Grande Nazione) possa portare ad una maturazione anche nella realizzazione delle liriche. E se parlare di "maturazione" per artisti che hanno da tempo superato la soglia degli 'anta vi fa storcere il naso, pazienza: non si finisce mai di imparare.

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