Girando per gli scaffali del mio negozio di dischi favorito, la mia attenzione venne catturata, anni addietro, dalle surreali copertine degli album di una a me ignota formazione, i Little Feat appunto, contraddistinte da illustrazioni a dir poco curiose, opera di un artista noto come Neon Park: una torta su un altalena, un’auto guidata da George Washington con Marilyn Monroe, un pomodoro vivente, una papera sexy ai bordi di una piscina, un papero vestito alla Humprey Bogart di Casablanca.
Proprio quest’album (’86) decisi di acquistare, trattandosi, come segnalato nel retrocopertina, di un’antologia ufficiale del gruppo, che avevo medio tempore appreso essere una delle più significative ed eccentriche formazioni americane degli anni ’70, ovvero dell’epoca, che, personalmente, ritenevo e ritengo foriera delle più interessanti innovazioni della musica di consumo contemporanea.

Ci si può chiedere, a volte, se la copertina di un album rispecchi il suo contenuto: ciò e vero, ad esempio per certi lavori dei Pink Floyd (penso allo straniamento del “maiale che vola” in Animals, alla copertina liquida di Meddle), dei Clash (il roots rock à la Elvis di London Calling rivisitato in chiave moderna e violenta), dei Talking Heads (i volti trattati dei quattro in Remain in Light rispecchiano il “trattamento” elettronico subito dalla loro musica) come pure, per converso, per tutte le copertine anonime di certi album che si vendono oggi, seriali e plastificate come la musica in essi contenuta.

La copertina di quest’antologia non fa eccezione, nel consegnare alla storia ed, allora, agli archivi, una formazione che non c’era più, a causa della prematura morte del leader Lowell Gorge (1945-1979), e, all’epoca, superata dai tempi, dalle mode e dalle esigenze di mercato della metà degli ani ’80. Al contempo, il passato cui si riferiva la copertina doveva essere stato dei più inediti ed interessanti, frullando con ironia tradizione e modernità.

Proprio questa è la ricetta dei Little Feat, formazione californiana attiva fra il ’70 ed il ’78 (poi riformatasi alla fine degli anni ’80 ad opera di alcuni membri superstiti ed attualmente sulle scene con un onesto southern rock), creata da una costola delle Mothers of Inventions di Frank Zappa come il bassista Roy Estrada, e da un atipico cantante e chitarrista slide, Lowell George, a sua volta collaboratore, per qualche tempo, del genio di Baltimora.

La musica dei Little Feat può essere presentata, infatti, come un miscuglio di blues, gospel, southern rock, cajun, jazz, country posta intellettualemente, e geograficamente, al centro del triangolo fra “Los Angeles – New Orleans – Memphis”, in cui emerge la straordinaria capacità di sintesi, ritmica, strumentale ed esecutiva del gruppo, cui si aggiunsero, negli anni, il chitarrista Paul Barrere, il tastierista Bill Payne, la dinamica sezione ritmica di Kenny Gradney (bs, in sostituzione di Estrada), Sam Clayton (percussioni) e Richard Hayward (bt), tuttora in circolazione sotto il monicker Little Feat.
Un esempio di ciò è dato da pezzi tratti dal periodo ’72 – ’74, come "Dixie Chicken", in cui si fondono accenti contro e blues dall’innegabile sapore sudista, dall’arcinota "Willin’" (tanto amata dal nostro Ligabue) e da "Trouble", manifesti di certo country rock da middle States che tanto sarebbe piaciuto a Meat Puppets e affini, alla sincopate "Rock ‘n’Roll Doctor", "Spanish Moon", "Feats Don’t Fail Me Now"con sezioni ritmiche jazz blues e dai misurati interventi di chitarra e tastiere, sempre attente a non pregiudicare la compatezza e coesione di suono, e perciò poco propense ad eccessivi assoli. Una menzione a parte merita la stralunata "Sailin’ Shoes", quasi un gospel psichedelico dall’andamento imprevedibile a dalla melodia meno semplice di quanto non sembri ad un primo ascolto. I pezzi restanti, tratti dagli ultimi album del gruppo, nel periodo ’75 –’78, sono forse meno freschi ed allineati nelle direttive di certo blues/jazz, con gemme quali "All That You Dream" e "Long Distance Love" in cui emerge l’attitudine jazzy di Payne, o le più rockeggiante "Mercenari Territori", o il boogie sghembo e lunatico di "Old Folks Boogie". La conclusiva e acustica "20 Million Things", tratta dal primo album solista di Lowell George, "Thanks I'll Eat It Here" [di cui è già presente una ottima recensione su Debaser], ha i toni malinconici del commiato, visto che la mente indiscussa ed il creatore del sound dei Little Feat sarebbe improvvisamente morto di lì a poco, a causa di una vita di eccessi.

Una raccolta eccellente per avvicinarsi al gruppo, solo come viatico verso i più densi e significativi album dei grandi Little Feat di Lowell George.

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