Quando il personaggio più in vista dei Little Feat, vale a dire il chitarrista e cantante Lowell George, passò inopinatamente all'altro mondo ancor trentaquattrenne, il suo gruppo gli aveva già preso abbastanza la mano: la fronda montatagli su dal collega Paul Barrere e dal tastierista Bill Payne, entrambi molto presi da generi come il funky e la fusion che a George non interessavano, era cominciata già da un paio d'anni, e di album.
La sua dipartita (anno 1979) sospese i lavori per otto lunghi anni, dopodiché il marchio Little Feat è tornato sul mercato riprendendo da dove aveva lasciato, cioè da una musica molto losangelina, essenzialmente metropolitana, farcita di umori a'la Steely Dan, Doobie Brothers, persino Toto, alla faccia del povero George che tendeva a frequentare strade più campagnole, tra southern rock e country blues.
Ebbene, a me personalmente piace di più questa seconda porzione di carriera dei Little Feat: sia Barrere, chitarrista brillante e ficcante ed ottima voce simil-Tom Johnston (Doobie Brothers), che Bill Payne, pianista ed organista coi fiocchi e discreta voce pure lui, sono musicisti a me più affini di Lowell George. E sicuramente tutt'altro che comprimari... ci sta che si siano potuti caricare sulle spalle il fardello del proseguimento di carriera di una formazione così affermata e stimata (più la seconda che ho detto, che la prima...).
Il "buco" lasciato da George fu riempito assoldando ben due chitarristi/compositori: Craig Fuller (anche valido cantante solista) proveniente dai Pure Praire League e Fred Tackett. Sette musicisti sul palco e in studio quindi, ad edificare un suono estremamente sfaccettato, pulsante e preciso, arrangiato con precisione e classe, con quel tipico andamento privo di qualsiasi asperità tipico della musica californiana, che riesce ad essere sempre rotonda e speziata senza mai eccedere in nulla.
Per molti questo è un sacrosanto difetto, e forse hanno ragione: album come questi lì per lì suonano entusiasmanti, con strumenti e voci che viaggiano senza una sbavatura, asciutti e sintetici nei loro interventi. Poi magari ci si accorge che non molto resta impresso, che di tutta una serie di passaggi pregevoli e incastri intelligenti, di assoli che finiscono dopo poche battute, di scambi di voce solista, non resta mai la canzone epocale, l'assolo perfetto, la melodia irresistibile.
Il fatto inconfutabile è che tutti i musicisti sanno suonare benissimo, con interventi misurati e di cristallina classe. Il batterista Richie Hayward ad esempio (a proposito... se n'è andato pure lui, tre anni fa) lo si ascolta in certi pezzi andare in cerca del rotolante shuffle caro al collega Jeff Porcaro (Toto), che allora dettava legge nella Città degli Angeli. Bill Payne è un musicista di grande caratura sia al pianoforte che all'organo che ai sintetizzatori, coi quali non ha problemi ad arrangiare intere, complesse sezioni di fiati (su "The Ingenue", in particolare); lui è fra i migliori al mondo, lo dicono in molti (Elton John, ad esempio) e lo confermano le centinaia di dischi in cui è stato chiamato a dare una mano come ospite.
A cantare sono in tre: Barrere, la voce più gioiosa e chiara del terzetto, si aggiudica cinque brani, altri quattro sono interpretati da Fuller che sfoggia un timbro più sofferto e teso, perfetto, a metà fra un Jackson Browne (più grintoso eh) e uno Steve Overland (e chi è? Ah, il cantante degli FM. E chi sono? Oh, arrangiatevi). Gli ultimi due pezzi sono appannaggio di Bill Payne.
L'iniziale "Texas Twister" è aggredita e marcata a fuoco dal grande lavoro di Fred Tackett su una Fender Telecaster, maneggiata in maniera agilissima facendone risaltare le grandi qualità in termini di nitidezza e attacco. Su "Feelin's All Gone" lo stempiato Barrere smanetta alla grande col ditale slide, non facendo troppo rimpiangere il riconosciuto maestro Lowell, ma il break solistico più spumeggiante è quello che un ospite, il fuoriclasse Michael Brecker, stampa col suo sassofono sulla già citata "The Ingenue", la mia preferita, in toccante Steely Dan style.
E' questa musica californiana al centouno per cento, vero crogiuolo di tutti gli stili che hanno fatto grandi gli Stati Uniti in campo musicale: blues, jazz, rhythm&blues, rock, pop, anche un po' di latino frullati insieme e serviti in ottima salsa da esimi cuochi; musica bianca, bianchissima, ma rubata ai neri... però con rispetto; musica viscerale cerebralmente commista con intrattenimento fighetto e gustoso: non sarà mai arte da dieci e lode, ma un bell'otto se lo guadagna spesso, e questo mi sembra uno dei casi.
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