Arriviamo a questo benemerito locale, lo 041 di Marghera, ricavato da un ex deposito ferroviario, poco prima delle undici. Scopro (!) che è il tour promozionale del nuovo album “Colleidoscope”. Buio. Escono. Boato. Mi avevano detto che era la formazione originale, ma mi accorgo subito che non c’è Muzz Skillings, bensì il solito Doug Wimbish, con una bandana-asciugamano che gli scende sulla schiena trattenendo le treccine. Vernon Reid, con qualche annetto in più e qualche metro in meno di dreadlocks colorati, si fatica a riconoscerlo.
Il concerto inizia, senza nesuna enfasi. Mi metto molto tranquillo, ascolto le prime canzoni, niente di che. Rimango freddo, penso... things have changed... Sono io che sono ancora freddo e scettico, o sto assistendo a una specie di reunion per nostalgici? L’età media del pubblico è alta per un concerto rock. Ma non faccio in tempo a completare questi pensieri. Non so cosa succede, a poco a poco una strana elettricità prende a salire. Se ne accorge il pubblico. I quattro sul palco diventano più cupi, più tesi, si crea un clima come di alta pressione che prelude a un temporale.
Il pazzo Doug Wimbish rimane tutto solo sul palco, e sembra quasi più a suo agio... Una drum machine indiavolata, Wimbish che si incolla allo wah-wah e dà il via a un agglomerato di suoni siderali, di rombi, rumori misti ad assoli al basso degni del compare Reid, creando un vortice ritmico spaventoso, un uragano che per diversi minuti si abbatte sul pubblico, urlandoci dentro: “This is the way we play terrorism! Bush is a terrorist! Blair is a terrorist!”. Sono sconvolto, mai vista tanta forza, sembra Malcolm X reincarnato. Finito questo cataclisma, Wimbish si riprende per qualche secondo, accenna un sorriso, poi attacca il riff di “Seven Nation Army”... disorientamento generale... sembra uno scherzo, ma poi esce tutto il gruppo con Vernon Reid che canta pure!
Ora che la porta è aperta, si parte. Arrivano i classici, uno via l’altro: Cult Of Personality, Type, Love Rears Its Ugly Head, Pride, perfino la zuccherosa Glamour Boys. Alla fine ci incollano sopra un... reggae, che pare strano ma è splendidamente coerente con tutto il resto, la gente si sta divertendo e loro sul palco ancora di più. Il tizio accanto a me accende un pistolotto che immediatamente pervade l’aria. Dalla New York dura, colta e incazzata del black power a un Jamaica sound à la Wailers il passo è brevissimo, la prova ce l’abbiamo ancora nelle orecchie. Giochi di prestigio. Ci stanno dicendo, compiaciuti: noi siamo capaci di fare qualsiasi cosa.
Il concerto è finito, ma il pubblico chiama a gran voce. Calhoun torna indietro ed interroga la folla, retorico, urla: “Are you sure you want some more? Are you really sure you want some more?”. La bolgia monta. Comincio a preoccuparmi: che diavolo faranno adesso? Incrocio le braccia, vediamo. Ancora qualche secondo, ecco, escono. Qualche nota e la riconosco: oh mio dio, ohmioddio! Mi butto anch’io a saltare come un pazzo deficiente... “You jump in front of my car when you... know all the time... ninety miles an hour, girl... is the speed I drive...”. Tutti cantano a squarciagola come impazziti, è l’apoteosi. Ce ne torniamo a casa, dopo una birra, distrutti eppure ancora elettrizzati. Felici. Domani è sabato, c’è altro cui pensare. Domani ci penseremo.
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