Sono passati ventun anni dal debutto che insieme a pochi altri dischi cambiò la scena musicale, aprendo nuovi orizzonti fatti di contaminazione tra stili, anche i più disparati e che mai nessuno osò avvicinare in una stessa canzone. Continuarono quello che anni prima era riuscito ai loro padri putativi Bad Brains. In mezzo uno stop o scioglimento, a seconda dei casi e poi il ritorno discografico nel 2003 con il buon "Collideoscope" che aveva l'unico difetto di essere troppo prolisso.
I Living Colour sono stati e lo sono tuttora un gruppo amato dagli addetti ai lavori ma che stranamente non ha mai fatto i grossi numeri a livello commerciale. Musicisti capaci di dare del "tu" allo strumento come pochi, dotati di tecnica incredibile e una carica che ha pochi eguali in sede live, i quattro musicisti di colore newyorchesi, danno allo stampe un disco vario ma soprattutto dotato di un buon appeal radiofonico, che, attenzione, non vuol assolutamente dire che abbiano venduto la loro musica. Distanti da quello che continuo a considerare il loro capolavoro il grezzo "Stain" del 1993, che vedeva il gruppo aggiornare la propria proposta musicale inserendo elementi industrial che rendevano i brani oscuri e minacciosi.
Ancora guidati dalla sublime voce di Corey Glover e dalla funambolica chitarra di Vernon Reid, uno che meriterebbe più voce in capitolo nelle classiche classifiche dei chitarristi "più...", i Living Colour giocano sul sicuro. Ormai lontani i tempi in cui la loro musica stupiva per vivacità e innovazione, ora la band punta su composizioni che pur essendo superiori alla media, non riescono a rivaleggiare con il passato se non in alcuni sparuti casi.
Sempre caratterizzate da testi mai banali, le canzoni sono nate quasi tutte on the road e parecchie sono state registrate in Europa, a Praga e in Austria. Il sociale, le ingiustizie, la parità razziale sono sempre gli argomenti che troveranno posto nelle loro composizioni. Sezione ritmica possente composta da Doug Wimbish al basso e Will Calhoun alla batteria e la chitarra di Reid a spaziare ed inventare. Questa la semplice ricetta che lega le canzoni dei Living Colour, che si tratti della danzereccia e funky "Young man", del soul di "Method", della pesantezza metal di "Decadance" con un riff sabbathiano alla Tony Iommi o del crossover metal di "Burned bridges" e "The Chair".
"Behind the sun" funziona alla grande, canzone a dir poco perfetta, con la voce di Glover sempre in gran forma e Reid presente dall'inizio alla fine con i suoi funanbolismi chitarristici. Dura e moderna è invece "Out of my mind" mentre purtroppo un pò sottotono risultano essere la funky e jazzata "Bless those" e la quasi mainstream "That's what you taught me".
In attesa di vederli fra pochi giorni in versione live, dove sicuramente riusciranno a far splendere di luce propria anche le canzoni di questo album di passaggio, i Living Colour si dimostrano ancora dei buoni professionisti del rock, lontani dallo splendore dei primi anni ma ancora vicini ai cuori di chi sceglie la buona musica...ops la ghost track è un buon hard blues. Stop.
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