Il rimpianto più abissale e lisergico della Locanda delle Fate durante gli anni settanta fu quello di camminare troppo a lungo, dedicando esclusivo tempo e militando su piccoli e medi palchi, quasi principalmente per coverizzare celebri gruppi progressive partoriti a nord della Manica, anziché salire sul treno come Fornerie, Banchi, Trolli, Balletti bronzei e Perigei vari e buttarsi nella mischia discografica. Solo nel 1977, quando i colleghi più noti avevano quasi esaurito le cartucce, riuscirono ad aggrapparsi alla coda del vagone, in prossimità delle ultime stazioni di un genere ormai al crepuscolo, illuminando grazie a delle semplici lucciole, i chilometri finali del tragitto, ancora per qualche istante.
Vero è pure che come dichiarato in alcune interviste, la Polydor, che non voleva dimostrarsi il paese di Bengodi, non fu più tuttavia disposta a tentare di bissare il successo di questo piccolo scrigno del rock made in Italy intitolato appunto “Forse Le Lucciole Non Si Amano Più“ e non investì più su di loro nonostante nel 1978 avessero già in progetto un altro lavoro, ma preferì puntare su altri cavalli vincenti, incentrati su altri generi più in auge in quel periodo e la magia delle Fate si esaurì.
Passarono un'infinità di altri treni e una barca d'anni, prima di rivedere questo gruppo in sala d’incisione e nel frattempo nei novanta, l’interesse per le vecchie compagini progressive, tornò a bussare all’uscio, non impedendo loro di rifarsi l’armadio a nuovo per riproporsi al pubblico.
Forse troppo nuovo, perché se nel 1999 i seguaci del progressive, quelli dello zoccolo duro per intenderci, che si aspettarono da “Homo Homini Lupus” suite generose, bassi schizzoidi, e batterie in ottantuno ottantaduesimi, poterono tranquillamente mettersi l’anima in pace, levare polvere e naftalina dal disco del 1977, infilarci la puntina sopra ed abbandonarsi ai nostalgici sogni di gloria. Per l'appunto la Locanda delle Fate dichiarò di aver voluto puntare senza furberie ed escamotage ad un pop-rock ordinario, non tanto come specchietto delle allodole per attirare le masse, ma per non cedere forzatamente uno scettro di erede del consacrato album delle “lucciole” al novello “lupo“. L’operazione riuscì pure e le critiche non furono negative.
E’ certamente un disco ben curato, ok, si percepisce il tocco manufatturiero e professionista, ma non spicca il volo. Manca pure Leonardo Sasso, la voce principale del primo LP, che tornerà di lì a circa dieci anni, per l’ennesima resurrezione del gruppo, in cui avranno modo di reinventarsi, facendosi catturare di nuovo dall’anima più sperimentale degli albori.
C’è da dire che qualche baldanzoso tiro di schioppo oltre la barricata perviene ancora: l‘inframezzo di circa un minuto “Bandando“ in stile marcetta da festa patronale, “Plovi Barko” e “Certe Cose” costituite da flebili tracce di mescolanze a cavallo tra ambient, synth-pop e new-age, mentre la filosofica title track (cantata in latino) e “Ojkitawe” sono forse gli unici pezzi che tentano di emulare qualcosa che rassomiglia lontanamente al progressive. La conclusiva “Fumo” si alterna in una versatilità di generi, come a racchiudere la summa del disco, ultimando il tutto con degli intelligenti assoli e riffetti di chitarra. Per il resto tanto pop, certamente ben proposto e se paragoniamo il "lupo” alle secchiate di liquame pubblicate in Italia in quell'anno, è oro colato.
Onestamente alla fine della fiera non ci ho capito molto. Non sono né deluso né appagato. E’ tutto così indefinito e ibrido, ma simultaneamente ordinato nella struttura e nelle voci. Mi è piaciuto? Mah... passa il turno con un s(n)ì generoso e con dei voti non abbondantemente sopra la sufficienza. Si sente che c’è ancora classe da vendere, loro suonano con maestria, ma se lo ascoltassi quaranta volte so già che lascerebbe in diversi episodi il tempo che trova. Nulla mi rimane scolpito. Un po' come metter piede in un appartamento con arredamenti nuovi, dai design impeccabilmente squadrati e modernamente minimalisti, vestiti di tinte fredde come l'Enterprise e privo di soprammobili che mettano un po' di luce, calore ed entusiasmo. Bene, bel mobilio, ottima qualità, ma una volta uscito di casa non c'è quel particolare stilistico che mi ha rapito. Non c’è qualcosa di trainante e trascinante che mi fa gridare al miracolo oppure: “Sticazzi, qualche accorgimento e poteva quasi divenire un portento“.
Beh… d’altronde pure gli acclamati Banco del Mutuo Soccorso, Orme e Premiata Forneria Marconi, qualche capitolo poppettaro meno felice lo hanno lasciato nell’immediato periodo successivo alla loro epoca d'oro di "ricchi premi e cotillon". Meno immediato invece è il tempo in cui la Locanda delle Fate riesce per l’ennesima occasione a seguire i passi dei suoi fratelli maggiori dandosi al pop (con oculatezza e senza banalità, ripeto) e per non smentirsi (e lo dico con simpatia), ci arriva ancora in ritardo. Stavolta con due decenni, ma comunque ben venga.
VOTO: tra 6,5 e 7
Carico i commenti... con calma