Due occhioni azzurri più del cielo novembrino in una giornata ventosa, che spiccano in quel visino ovale, incorniciato in un mare di riccioli biondi. Sembrava una bambola di porcellana, Maria McKee, ed era impossibile non innamorarsene.

Per dire, se ne innamorò Benmont Tench, e questo ebbe un seguito nella storia; me ne innmamorai io, ma questo non ebbe alcun seguito. Per forza, Benmont a quei tempi suonava il piano nella banda di Tom Petty e lo fa ancora, io giocavo con le macchinine ma ora non più.

Su quella storia con Benmont, Maria scrisse pure una canzone, «A Good Heart», che prestò a Feargal Sharkey, quello che cantava negli Undertones, e Feargal con quel brano realizzò quanto non gli era riuscito nemmeno con «Teenage Kicks», arrivare al numero uno, e non solo nella natia Irlanda ma anche in Inghilterra e persino in Australia.

Roba da non crederci, Feargal canta il brano di Maria e scala le classifiche. Roba da mangiarsi le mani, ma non Maria, lei se ne frega. Perché aveva in testa altro, e poi quella canzone nemmeno la considerava.

Quello che aveva in testa era una data, quella in cui avrebbe esordito in grande stile con il suo gruppo.

Perché Maria cantava in un gruppo, lo aveva messo in piedi pochi mesi prima con l’amico d’infanzia Ryan Hedgecock, e se ne andavano in giro a suonare una miscela di suoni fino ad allora inaudita. Country e punk, l’acquasanta ed il demonio.

Maria e Ryan non avevano compagni di viaggio, fatta eccezione per quel bruttissimo ceffo di Jason Ringenberg e la sua accolita di scorticatori di Nashville: suonavano da favola, Giasone e Gli Scorticatori, ma era meglio stare alla larga da loro, e forse fu per questo che Maria si mise con Benmont, che almeno lui ai genitori glielo poteva presentare, se proprio fosse stata costretta a farlo. Ma in fondo in fondo, lei ci andava pazza per Jason And The Nashville Scorchers, andava pazza per la loro musica, per quella musica, e si ficcò in testa che l’avrebbe suonata pure lei.

Aveva una passione che la divorava, Maria, e la riversava tutta fuori in ogni bettola in cui finiva a suonare con Ryan, quando riscriveva Johnny Cash e Gram Parson con la sgorbia calligrafia di una Exene qualsiasi. Ma che bella che era, e che bella che era la sua voce.

Qualcuna arrivò perfino a scorgere in lei la fiamma del talento, ed era Linda Ronstadt, stella di prima grandezza della musica country; Linda che non si fermò ai modi scostumati della piccola Maria e le procurò un ingaggio alla Geffen.

Roba da non crederci, pure questa: una multinazionale dell’industria discografica che mette sotto contratto una cover-band senza arte né parte. E finì pure che Maria tenne testa alla Geffen e realizzò tutto quello che aveva in programma di realizzare.

Era il 1985. Maria, Ryan ed il resto della banda entrarono in sala di registrazione e subito misero in chiaro che si sarebbe fatto a modo loro, e subito dispensarono ordini a destra e a manca a gente del calibro di Little Steven, Benmont e gli Heartbreakers, Annie Lennox, Jimmy Iovine; a dimostrazione del fatto che Maria, oltre alla bellezza ed al talento, aveva un caratterino niente male.

Tirarono fuori un gran bel disco che era tutta farina del loro sacco e lo intitolarono con il nome della banda, Lone Justice.

A guardare in profondità, però, già apparivano le avvisaglie del cambiamento rispetto alle infuocate notti spese nelle bettole a celebrare balorde congiunzioni tra Johnny Cash e Johnny Rotten. Fu lampante per tutti l’anno seguente, quando fu pubblicato «Shelter», e come per una brutta magia tutta la freschezza e la spontaneità che ancora albergavano nell’esordio evaporarono.

Allora ben venga «This Is Lone Justice: The Vaught Tapes 1983», pubblicato nel 2014 per testimoniare i primi passi di Maria e Ryan insieme a Marvin Etzioni e Don Heffington: questi erano i Lone Justice.

Sembra uno di quei filmini sbiaditi girati in Super 8, con papà che imbraccia la telecamera e mi immortala mentre cammino i primi incertissimi passi e mamma che mi regge da dietro per non farmi capitombolare rovinosamente.

Nel dicembre 1983 i Lone Justice varcarono la soglia dello studio di registrazione Suite 16, accolti dall’ingegnere del suono David Vaught: volevano mettere su nastro qualche brano autografo ed alcuni pezzi della tradizione, quegli stessi che notte dopo notte snocciolavano nelle bettole di Los Angeles e dintorni.

Sarebbe dovuta essere una cosa da poco: buona la prima, sempre e comunque, niente rimaneggiamenti di sorta.

Su nastro vanno a finire dodici brani, da «Nothing Can’t Stop My Loving You» a «Jackson», da «Dustbowl Depression Time» a «Working Man Blues»; la bellissima «Soap, Soup And Salvation» che sarà pure nell’esordio e pure «This World Is Not My Home», indemoniato tradizionale in odore di santità.

Atmosfere rurali e ritmi vertiginosi, country e punk, di lì a poco i Lone Justice e Jason And The Nashville Scorchers sarebbero stati annoverati tra i padrini del cow-punk; ne avrebbero tratto poco o nulla beneficio, anche se gli Uncle Tupelo ed i Wilco e tutta la scena indie folk nei loro confronti ha da saldare un debito assai consistente.

Sarebbe dovuta essere una cosa da poco, ma trentuno anni dopo quei Lone Justice si rivelano un gruppo scintillante, una sorpresa bellissima; un po’ come se mio papà avesse vinto l’Oscar per la regia, io quello per l’attore protagonista e mia mamma quello per l’attrice non protagonista.

Proprio così.

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