Ordine del giorno: una volta tanto, dare ascolto al titolo del disco. Evitate qualsiasi fonte di luce che possa investire, striare, deformare, metamorfizzare i chiaroscuri di cui sono costellati i sei, lunghi brani della seconda prova, sulla lunga distanza, per il quintetto post rock tedesco. Ecco, bene o male ve l'ho detto, ora tocca a voi esorcizzare la paura di ritrovarvi di fronte, per l'ennesima volta in ennesimi anni, ai ciclici alunni di Mogwai o Explosions In The Sky. Anche perchè, badate bene, non c'è canonico yin/yang che tenga: sopra le chitarre, la rete di tastiere, la doppia cassa, i glitch, gli squarci, il pre ed il post, si avvolge fitta un'atmosferica brina noir che dona autentico e personalissimo fascino ad un'epopea già svantaggiata ai blocchi di partenza, causa inevitabili paragoni e rigetti dell'etichetta specifica per infausto affollamento oltre misura (specie negli ultimi anni).

Sarei sciocco a voler affermare, ad ogni costo, l'originalità sonora dei Long Distance Calling, come a voler foderarmi le orecchie di prosciutto ed abnegare l'inevitabile discendenza genealogica via brughiera scozzese o Louisville, USA. Non è questo il punto. Non varrebbe la pena insistere, altresì, su formazioni prive di potenziale o pedissequamente alla ricerca di una propria (non) identità da virare verso dubbie scelte stilistiche, ed il fatto che, qui ed ora, "Avoid The Light" spazzi via ogni corpuscolo di dubbio è un fatto da tenere significativamente in conto.

I teutonici, maxima reductio, sanno scrivere canzoni davvero fantastiche. E, più che coltivare quella serie infinita di sterili arpeggini declinati in malincon(o)ia tanto saccheggiati da screanzati figli di madre ignota nell'ultimo decennio, puntano all'impatto fisico: antepongono, in altre parole, il volume alla contrapposizione. Lo si capisce da subito, ma è con "I Know You, Stanley Milgram!" che si redige compiutamente il manifesto del lavoro: apertura a base di feedback e campanellini, secchissima ed inattesa sciabolata percussionistica, riff tooliano ed imbevuto nello stoner che devasta la perfetta armonia ivi creatasi. Niente di più, niente di meno. D'altro canto, avete sbagliato quartiere se volete tuffarvi nell'introspezione più becera, che pure s'intravede nell'unico episodio cantato, per grazia del gentile - e biascicato - Jonas Renkse dei Katatonia, del gothic sdolcinato ed un po' sui generis di "The Nearing Grave". Stop.

Procedete come vi pare: andando sommariamente per strutture, fidandovi di chi scrive, sbirciando dietro le gelide serrande che cala "Sundown Highway", quasi Red Sparowes, analizzando minuziosamente frame per frame. Ogni metodo preso in considerazione non potrà, in definitiva, sottrarre un grammo di oggettiva bellezza a quello che si andrà ad ascoltare. Non c'è un brano che spunti sugli altri in maniera netta e prevaricante: qualcuno preferirà l'apertura con "Apparitions", così cinematica e trasognata da fare accogliere gioiosamente l'irruenza post-metal delle tonitruanti chitarre conclusive, altri punteranno su "Black Paper Planes", mirabile nel coniugare un appoggio NWOBHM - è Germania non per niente, non trovate? - sulle oniriche ali di una melodia sopraffina, i rimanenti sceglieranno pigri (e soddisfatti) "359°", ripresa grossomodo fedele del succo a nome For Carnation, crescendo con suadente tête-a-tête strumentale robustamente piantato nel mezzo e drammatica apertura d'archi.

Che calino le tenebre.

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