Io abito a pochi metri da un fiume. A dir la verità in trentanni di continui spostamenti ho sempre avuto a che fare con corsi d'acqua. Siano stati questi ruscelli o affluenti, il fiume per me è come il mare per un isolano: rigenerante, consolatorio. In una parola: necessario.Per questo motivo un disco come "The finest thing", pur esulando parecchio del solito contesto narrativo di Lori Carson, non mi ha spiazzato. Tutt'altro.
Mai come questa volta il linguaggio della cantautrice newyorkese, collaboratrice costante di grandi educatori sonori quali Bill Laswell, Graeme Revell o Anton Fier si confronta con quell'elogio dell'appagante lentezza che si accende ogni qual volta mi avvicino a "quel" fiume.
Non che sia stata mai una grande pasionaria. Lori ha sempre suonato e cantato in punta di piedi, mettendo la sua vocalità ed il suo lirismo a disposizione di grandi musicisti (ricordiamo i Golden Palominos di "Pure" 1994). Da sola, poi è sempre stata capace di creare bozzetti delicati, talmente discreti che quasi nessuno se ne è voluto accorgere (ma per chi fosse interessato, oltre al disco recensito consiglierei il suo Best of "Stolen Beauty" o "Where it goes" del 1995).
In questo ultimo (davvero ultimo) lavoro in studio Lori ha voluto racchiudersi maggiormente nel proprio bozzolo lasciando che fossero vocalizzi minimali e chitarre acquatiche a disegnare il corso di una musica "di contorno", panoramica, mai invadente. Una musica dove l'idea di canzone viene totalmente stravolta in favore di suite di otto minuti capaci di trasportare l'ascoltatore in spazi onirici e perfettamente alieni.
Senza grossi scuotimenti, la voce di Lori tende a mormorare, sussurrare, stillare parole talvolta incomprensibili, giusto per il piacere di esserne fugacemente rapiti. Così come quando sulla riva osservando il costante incedere di un flutto, improvvisamente cade un ramo e tu, assieme ad esso vieni risucchiato nel gorgo.
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