A volte la musica dovrebbe semplicemente scorrere ed accompagnare le nostre abitudini, lasciarsi andare come se fosse un leggero vento primaverile; è il caso di questo meraviglioso album, la cui più grande virtù consiste nell'amabilità. Commander Cody (il nome è ispirato ad un serial televisivo degli anni Cinquanta intitolato, appunto,Commando Cody) è un gruppo formato in Michigan alla fine degli anni Sessanta da un manipolo di sballati divertiti e divertenti che impiegheranno pochissimo per trasferirsi a San Francisco dove la scena è molto, molto più stimolante. "Lost in Ozone" (ABC, 1971) è il disco ufficiale di debutto della band, probabilmente il più onesto e trascinante. I Commander Cody assomigliano ad una macedonia assortita di linguaggi musicali; nell'album in questione troviamo una felicissima mistura di swing, country, rock, boogie-woogie, honky tonky e altre tonalità della variegata galassia conosciuta sotto il nome di "Americana".

Il vinile (ma è molto più rintracciabile il CD) si apre con "Back to Tennesse", uno scivoloso boogie-woogie che alza il sipario sul caleidoscopio sonoro cui ci apprestiamo ad accostarci; fin dalle prime battute è evidente la passione e la perizia con cui i brani vengono interpretati.

"Wine do yer stuff" è un brano di forte accento country, la cui resa originale è dovuta al magnifico stride piano di George Frayne IV alias Commander Cody in persona: la tradizione americana, però, si intreccia ad echi acidi che riportano niente meno che all'immaginifico Workingman's Dead dei Grateful Dead, mentre le chitarre invitano a ridare un'occhiata alle prime interessanti prove di Ry Cooder: la polvere dei sentieri è inumidita dalle gocce saline di Big Sur e l'atmosfera rifiuta una classificazione semplicistica, perché la matrice country è contaminata in modo molto autorevole, intridendosi di brezze hippie e inquietudini psichedeliche. "Seeds and stems (again)" è dominata da un lavoro raffinato di West Virginia Creeper alla steel guitar e l'atmosfera risente dei contemporanei sapori delle realizzazioni di Country Joe McDonald; nel testo il narratore ci racconta quanto tutte le disgrazie del mondo ricadano sulla sua testa: "Oh, my dog died just yesterday, left me all alone/ The finance company dropped by today, and repossessed my home/ That's just a drop in the bucket, compared to losing you/ And I'm down to seeds and stems again too/ Got the down to seeds and stems again blues". "Daddy’s Gonna Treat You Right" evidenzia un godibile lavoro di Andy Stein al fiddle, mentre la struttura generale del brano strizza l'occhio ai Buffalo Springfield; c’è un cantilenare sgangherato e commosso dai cui spigoli si affacciano le sonorità 'eaglesiane' di un album fortunato come Desperado. Un tuffo nella cultura più profondamente folk degli Usa con il traditional "Family Bible" e si completa il lato A con una meravigliosa "Home in my Hand", dove un testo quasi parlottato è inseguito da una luminosa scia rock’n’blues: intanto da dietro un angolo sbuca il faccione allungato di Tom Waits (riascoltare Closing Time: soddisfatti o rimborsati!).

Nella seconda facciata vinilica con "Lost in Ozone" è come se David Bromberg ci invitasse a ballare al suono della steel di Creeper e del fiddle di Andy Stein; a voi piacciono le sagre paesane? Se la musica fosse questa sono certo di sì. Si continua a fare casino con "Midnight shift": un rock’n’roll di scuola, perfettamente suonato, pieno di vita e di sensualità. "Hot Rod Lincoln" è il vero hit dell'album che è valso fama e diffusione nelle radio di tutti gli States, eppure, in tutta sincerità, questa composizione leggendaria, dallo storyrtelling iper-americano assecondato da un efficace rhythm and blues, non appare come il brano più riuscito. Scettro che, invece, credo possa benissimo essere consegnato a "What’s the matter now?". Una meravigliosa, (anche qui totalmente 'tomwaitsiana'), quasi-ballad, seminale per l’uso di basso e voce, ironica ed irridente; un lento, alticcio boogie punteggiato da una potente steel guitar: un capolavoro. Con "20 Flight Rock'n Roll" si parte per il drive-in; poi tutti insieme in palestra, al party universitario dove birra e sudore, al suono di un rauco sax, dimenticano per una notte la desolazione appena al di là delle finestre. La festa si esaurisce con "Beat Me Daddy Eight to the Bar, un honky-tonky scatenato, il cui linguaggio onomatopeico evidenzia la bellezza imperfetta e provvisoria di una musica che rischia sul serio di renderci euforici: "A-plink, a-plank, a-plink plank, plink plank/ A-plunkin' on the Keys/ A-riff, a-raff, a-riff raff, riff raff/ A-riffin' out with ease/ And when he plays with the bass and guitar/ They holler out, "Beat me Daddy, eight to the bar".

Talvolta anche una dolce, gioiosa stupidità, simile ad un'adolescenza senza fine, ci tenta e ci illude. Ed è per questo che esistono gruppi come i Commander Cody.













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