Puro decadentismo mitteleuropeo.
Strani parametri, già rispetto al glamour esibito con irriverenza nel precedente, indimenticabile Transformer: Lou sembra congedarsi dal precedente album nel segno di Kurt Weill, o forse Marlene Dietrich ("Goodnight ladies" - "...it's time to say goodbye...") come un Kubrick che preavvisa lo spettatore di dover iniziare un percorso diverso (il finale in costume di Arancia Meccanica anticipa i temi di Barry Lyndon). Berlin gode di una duplice fama: quello di essere ritenuto ormai universalmente uno dei caposaldi assoluti del rock, e quello di avere al tempo stesso l'impatto più terrificante che la musica potesse portarsi dietro. Reed non è certo nuovo a questa tipologia di realtà feroce e iconoclasta - pensiamo al testo di "Heroin" ad esempio - ma qui supera arditamente se stesso. Non a tutti l'operazione suscita entusiasmi, anzi indigna le riviste specializzate più in voga per la "volgarità" del disco, o forse per il barocchismo di certi brani o (addirittura) l'ambiguità ideologica (in un farneticante manuale naziskin di qualche lustro fa figurava al primo posto, in compagnia del Bowie di "Heroes" come autentico prototipo della difesa della razza ariana). Ma queste disquisizioni lasciano il tempo che trovano ormai: a me interessa esprimere un giudizio su un album che non è certo piacevole e rilassato anzi confesso che ogni volta che lo ascolto la tentazione di mettere fine alle atmosfere melò struggenti - o strazianti a seconda dei gusti - è molto forte. Album inarrivabile che costringe l'ascoltatore a calarsi nelle spire di un'atmosfera lugubre, nel racconto che l'autore ne fa: una sorta di psicodramma che vede coinvolta una donna dissoluta e la crisi coniugale col marito (pare che abbia messo in crisi la salute mentale del produttore del disco, reduce da una vicenda simile), il successivo allontanamento dei figli e l'apologo del suicidio della donna.
Una sorta di film à la Douglas Sirk se fosse un film. O un feuilleton d'autore se fosse un romanzo. Invece è un album di musica, dove Reed conferma tutto l'amore per Weill, ma anche Broadway (due mondi opposti....ma fino a un certo punto), per il melodramma tedesco e il teatro francese Ascoltate "Berlin": un pianoforte che anticipa il dramma ideale (?), una corrosione tra tradizione e dissacrazione pura, quasi Liberace mentre suona Tchiaikowsky. E' puro kitsch? E sia: sublime "Lady Day" potremmo leggerlo tutti come l'omaggio a un'altra donna sfortunata, Billie Holiday. E "Caroline Says" dunque? Suddivisa in due parti, pre/post dramma, qualcosa che esprime il rito incostante di un party naufragato nell'esilio nel dolore puro Ma l'imminente diventa qualcosa di insostenibile, perché tale è il pianto ininterrotto di bambini che reclamano la loro madre (cfr. the kids): "le portarono via i bambini perchè dicevano che non era una buona madre": è un'incubo che può portare a tormenti psichici infantili anche se non si sono vissuti. E' il segno di un legame affettivo immenso, di un sentimento cinico (quello del marito) che non tiene conto della reazione che possono avere i figli... Nei primi anni settanta, tutto questo osava dire Reed al pubblico, ai fans: l'immagine rinvigorita del ventre materno, l'espiazione del maschio costretto a commentare in soliloquio la sua sconfitta umana e affettiva ("Sad Song"). E' un disco che ferisce, sconvolge, distrugge, Berlin. E' l'ultima frontiera di un rock che osa l'inosabile, appropriarsi di un linguaggio quantomai adulto artistico e "letterario" senza il bisogno di nobilitarsi con efferate e masturbatorie session classiche à la Keith Emerson. Probabilmente resta l'anello di congiunzione, il crocevia ideale, tra il nichilismo del punk e la tradizione "Pura". Ritratto di famiglia in un inferno.
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