Mi piacerebbe identificare, e quindi recensire, un bellissimo album di Lou Reed in un solo magnifico pezzo, quello che gli da il titolo e non perché il resto sia inferiore, ma piuttosto poiché questo titolo contiene la forza della rinascita artistica e umana di un uomo ormai al limite dell'autodistruzione.

Dopo il pessimo "Sally Can't Dance", un lavoro totalmente evidenziato dalla condizione di Lou Reed strafatto di droghe e che a malapena si rendeva conto di cosa stava incidendo, pubblica a seguire "Metal Machine Music" l'album più assurdo della sua carriera, sebbene abbia continuato a difenderlo strenuamente sino all'ultimo: un doppio LP composto da quattro pezzi che riproducono su vinile praticamente un feedback (ritorno nel microfono del suono dell'altoparlante che si percepisce all'orecchio di chi ascolta come un fischio stridente e fastidiosissimo) per circa 80 minuti.
Roba da suicidio anche per gli anni della sperimentazione che furono appunto gli anni settanta anche se poi questo disco sarà fondamentale, anni e anni dopo, per l'esplorazione "noise" di gruppi quali ad esempio i "Sonic Youth".

Con "Metal Machine Music" però il nostro si era giocato tutto il bonus ottenuto con la RCA grazie a "Transformer" e a "Sally Can't Dance" che, nonostante l'indubbia trascuratezza, risultò l'album più venduto della sua carriera; la casa discografica aveva profondamente investito su di lui con pesantissimi anticipi in dollari americani per trovarsi in casa un personaggio scomodo, drogato, instabile e quasi fuori controllo.

Ormai era ai ferri corti con tutti quando improvvisamente si ricorda di essere newyorkese, duro, inaffondabile nato a Brooklyn e figlio di Coney Island e decide di proporre il suo album forse più intimista e personale di sempre dove proprio il brano che da il titolo al disco, "Coney Island Baby," è una canzone rabbiosa d'affetto, di gratitudine, di sassolini nella scarpa gettati al di la di qualsiasi ostacolo...e di amore... soprattutto d'amore.

Ken Glancy presidente della RCA, e forse una delle poche persone su cui poteva contare, gli fece promettere di non replicare mai più simili lavori come "Metal Machine Music" e Lou, sicuramente a malincuore, acconsentì come unica soluzione d'uscita possibile. Il sound si fa più morbido, e vola indietro nel tempo, come quello che ascoltava nei campus universitari quando ancora i Velvet Underground erano solo un sogno in divenire, ed in pieno stile doo-wop introduce i suoi giorni adolescenziali e la sua dedizione alla figura protettiva dell'allenatore della squadra di football.

Per contro abbiamo la solitudine, l'anima messa in vendita per scopi commerciali, i falsi amici che poi erano principalmente i fratelli Katz, il manager di Lou Reed e il suo produttore, che gli avevano fatto causa per le copiose rese di Metal Machine Music, il compromesso alla commercialità che odiava, come odiava i suoi fan ai concerti che continuavano a chiedergli "Walk on the wild side" quasi fosse l'unica cosa buona che avesse scritto.

"Coney Island Baby" però aveva una marcia in più, probabilmente inaspettata, quella dell'amore perchè al fianco di Lou Reed in quei giorni c'è Rachel compagna transessuale che gli sdogana i sentimenti, quelli più profondi, quelli più inconfessabili. Siamo nel 1975 e il brano "Coney Island Baby" che da il titolo all'LP diventa una sorta di inno all'omosessualità, ma allo stesso tempo celebra l'amore a 360° senza compromessi e senza inibizioni in una città che se ti va bene è un circo e se ti va male è una putrida fogna.

"Coney Island Baby" sarà l'album della sua definitiva rinascita se non proprio quello della sua consacrazione, ma ci sarà molto spazio e tanto tempo davanti per arrivarci, con uno, a parer mio, dei tre migliori album rock di sempre: "New York"; dedicato, nel bene, ma soprattutto nel male, proprio a quella città del ragazzo nato a Brooklyn e figlio di Coney Island.

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