A metà anni '70 Lou Reed era in un periodo alquanto strano, una specie di via di mezzo tra il successo da “rocker maledetto” e la follia che gli fece produrre quel Metal Machine Music che gli alienò molte simpatie all’interno della sua casa discografica, oltreché fra i suoi fans. Era quindi in un periodo in cui egli stesso aveva bisogno di una svolta, anche in campo musicale, e la svolta arrivò.
Se ne uscì infatti con questo Coney Island Baby, un disco leggero e bellissimo, anche se in qualche modo anticipa la “stupid music” di Rock’n’Roll Heart che arriverà subito dopo.
E’ possibile che lo abbia fatto anche per risarcire almeno in parte la RCA dal terribile insuccesso di Metal Machine Music, ma non importa, qualsiasi ragione per un disco del genere è buona.

La leggerezza si sente subito nelle prime due tracce dell’album, “Crazy Feeling” e “Charley’s Girl”, due ottimi brani easy-listening, piacevolmente rockeggiati e orecchiabilissimi, musica, per dirla con Lou, “da ascoltare al bar mentre si sta leggendo, tanto per gradire”. “She’s My Best Friend” è una delle mie canzoni preferite di Lou Reed, un rock tipicamente reediano, con un esplodere chitarristico finale che la colloca sicuramente fra i suoi pezzi di maggior pregio in assoluto.
“Kicks”: se io fossi un regista e facessi un film dedicato a un serial killer, non troverei miglior colonna sonora di questa canzone, inno alla depravazione, al vizio e al deragliamento più totali. Lou Reed confessa candidamente “Sono un regalo per le donne di questo mondo”, (“A Gift”), bisognerebbe chiedere informazioni a Laurie Anderson, sua attuale compagna.
Poi arriva il rock’n’roll semplice e diretto di “Ooohhh Baby”, ritmo e chitarre trascinanti e voce di Lou svaccata e scazzata. “Nobody’s Business” è un lento che non mi ha mai colpito granché, mentre la finale “Coney Island Baby” è il Colpo del Genio, un lentaccio autobiografico e ad effetto che lascia sbigottiti per intensità e per la partecipazione con cui Lou si racconta attraverso una canzone, con ricordi anche di adolescenza (“Volevo giocare a football solamente per il coach…”).

Un disco che forse voleva essere solamente di transizione e che invece si è rivelato molto di più, soprattutto alla luce di quanto successo dopo, ed è un album che, nel catalogo loureediano, brilla di luce propria e, a tutt’oggi, si lascia ascoltare con estremo piacere.

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