Il 21 dicembre 1973 Lou Reed e la sua band tengono un concerto all'Academy of Music, un teatro in pieno centro di Manhattan a pochi isolati da casa sua. Tredici i brani in scaletta, o meglio quattordici contando anche l'intro iniziale strumentale, composta dal suo chitarrista principale Steve Hunter. Cinque episodi sono tratti dal repertorio del suo vecchio gruppo Velvet Underground, il resto dagli album solisti "Transformer" (1972) e "Berlin" (1973).

Pochi mesi dopo, nel 1974, esce "Rock'n'Roll Animal", ellepì singolo contenente sei dei pezzi eseguiti in quell'occasione (ben quattro di essi dei Velvet), ed il è successo definitivo per Lou: il potente e cromato appeal hard/glam rock con cui i brillanti musicisti al suo fianco rivestono le scheletriche marcette proto punk di fine anni sessanta nonché quel paio di cose più recenti, dilata la sua fama ai rocchettari di tutto il mondo. Molti in realtà prestano più orecchio allo smagliante suono d'insieme, all'impeccabile groove basso/batteria e al particolare feeling creato dal lavoro delle due chitarre soliste che alle stonate, ombrose e fascinose tiritere del tossico bisex ultra metropolitano momentaneamente prestato all'arena rock.

Lou per questo non è contento e in breve licenzia il gruppo, mantenendo la sola sezione ritmica per il successivo lavoro in studio "Sally Can't Dance". Altro buon successo, ma alla RCA, sua casa discografica, rosicano perché quel Lou Reed era maggiormente spendibile ed universale. Nel 1975 decidono poi, senza interpellare l'artista, di pubblicare questo nuovo disco dal vivo, con altre sei estratti dallo stesso, identico concerto di Manhattan di oramai due anni prima, con l'evidente desiderio di raschiare il fondo del barile.

La vendetta di Lou sarà terribile: "Metal Machine Music", cioè quattro intere facciate viniliche di puro, iconoclastico feedback generato da due chitarre elettriche lasciate per quarti d'ora appoggiate agli amplificatori regolati al massimo, mentre il nastro di registrazione gira: tra le cose più inascoltabili, incomunicabili ed inutili (se non a lui stesso) della storia del commercio musicale.

Per chiudere infine la faccenda, giunto dopo diversi anni il momento di masterizzare su ciddì il pluridecorato "Rock'n'Roll Animal" la RCA vi aggiungerà, come bonus tracks, l'ultimo paio di canzoni eseguite in quella serata ancora mancanti all'appello. In questo modo le due opere in questione contengono, nella loro forma digitale, l'intera performance all'Academy anche se in ordine sparso, senza rispettare l'effettiva scaletta.

Ci sono degli strani appassionati di musica che amano "Rock'n'Roll Animal" e non sopportano "Live", arrivando a dire che il primo è una bomba e questo suona moscio... com'è possibile? E' la stessa serata, sono gli stessi nastri! Lou Reed è quello: fine 1973, drogato perso, ossigenato biondo e pieno di rimmel agli occhi, senza chitarra addosso per fortuna (è negato, anche se non se la leverà più di dosso e ancor oggi ci ammannisce la sua scarsissima perizia, "assoli" compresi) e sospinto da cinque musicisti bravissimi e grandemente coesi.

Il suono è rotondo, cremoso, ricco. Le chitarre di Hunter e di Dick Wagner si scatenano nei rock proto-punk e pre-glam trasformandoli in sonoro hard rock melodico ("Vicious", I'm Waiting For The Man"). Quando invece le composizioni sono più d'atmosfera, malate e pericolose ("Oh Jim", "Sad Song"), salgono al proscenio le tastiere di Ray Colcord ed il metronomico incedere dello strumento di Prakash John, un bassista indiano pieno di talento. Gli incubi di "Berlin" e la lascività di "Transformer" sono resi in maniera professionale, ma anche attenuata dal gruppo, che palesemente si diverte di più quando il ritmo corre.

Sarebbe stato bello che queste sei canzoni fossero uscite da subito insieme alle altre otto in "Rock'n'Roll Animal", rendendo quel disco doppio e accomunandolo così a super classici di generoso minutaggio tipo "Made in Japan" dei Purple, "Absolutely" dei Doors o "Live At Filmore" degli Allman. Quest'opera invece, osteggiata dallo stesso protagonista, vive a stento nell'ombra del suo fratello maggiore, pur essendo della stessa pasta e soprattutto valore.

Chicca finale: la foto di Lou in copertina, osteggiante uno di quei cappellini a falda stretta che ancor oggi infestano New York, è uno scatto di Oliviero Toscani, ai tempi ad inizio carriera.
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