A Berlino, presso il muro, nacque quasi 40 anni or sono un disco, e forse pure una storia, sicuramente nacque una leggenda: quella di "Berlin", terzo album solista di Lou dopo essersi diviso dai Velvet. Pubblicato nel 1973 e avente come produttore Bob Ezrin (il quale impazzì a fine lavoro, dicendo a Lou di chiudere i nastri nel cassetto e di non pubblicarli) fu un insuccesso commerciale e di critica, un vero e proprio flop: Scarno, triste,pesante e senza alcun singolo di rilevanza, "Berlin" fu l’esatto opposto del precedente "Transformer", logico quindi che ebbe l’opposta fortuna.

"Berlin" è davvero un’opera astrusa e complicata, una nebbia fitta e un buco senza fondo, che narra una delle cose più semplici e banali al mondo: una storia d’amore, andata a male, quella di Caroline e Jim. Quest’opera fu ampiamente rivalutata in tempi non lontani, facendola diventare un pilastro della carriera solista di Reed, un mito per tutti i fan, un testo sacro nella storia dei concept album. Una storia affascinante mai portata interamente live su un palco se non 35 anni dopo. Forse troppo difficile la materia da mettere in atto, troppo delicata la musica, la vicenda, e Lou aveva bisogno di tanta esperienza: infatti Lou, ormai sessantenne, chiama per l’occasione il grande chitarrista Steve Hunter e musicisti del calibro di Rob Wassermann più fedeli componenti dei suoi live, e infine raduna a se il Brooklyn Youth Chorus, come coro.

Il risultato è una prova d’amore verso la musica e la poesia, in uno dei concerti più sentiti che la storia ricordi. Sembra quasi provato, quando racconta il suicidio di Caroline o le sue bambine che le vengono portate via.

Un opera semplice e asciutta, come non se ne vedono da decenni, senza barocchismi né musicali né visivi. Tranne quelle luci giallognole che ci sono durante tutto il live, che rimandano a quelle “greenish wall” di Berlin: tutto il resto è Lou Reed.

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