Giorni fa, poche ore prima del concerto dei Low al Teatro dal Verme, giravo per il centro di Milano, alla ricerca di un posto dove fermarmi e passare un po’ il tempo. Ci sono due tipi di oasi dove finisco, inevitabilmente, per indugiare, e spaziare: le librerie e i negozi di dischi. E quale posto migliore di un incrocio tra le due?
In Piazza Duomo, entro alla Mondadori, davanti alla quale è accalcata una folla di ragazzine, dal dubbio quoziente intellettivo, che urlano per l’arrivo di Alessandra Amoroso, che ha appena pubblicato il suo ultimo album, “Io” (quanta originalità! E quanto poco narcisismo!).

Insomma, varco la soglia della libreria, lasciandomi alle spalle la folla, ma trovando, all’interno, l’immagine, su cd e su altre superfici, della Amoroso. Ignorando quanto vedo, prendo l’ascensore e mi accingo alla visita del piano riservato ai cd, ai dvd, e naturalmente ai vinili (che stanno ritornando alquanto in voga). Siccome ho un misero zainetto, con anni di logoramento alle spalle, mi soffermo solo su cd e dvd. Non posso non notare i prezzi altalenanti sui prodotti – alcuni molto alti, alcuni molto più abbordabili. Nella categoria “cd internazionali” (non mi ricordo se tale fosse la precisa dicitura), mi accorgo di una serie di cd di Lou Reed che costano veramente poco. Ne prendo quattro: “Rock ‘n’ Roll Animal” (1974), “Metal Machine Music” (1975), “The Bells” (1979), “The Blue Mask” (1982). Al bottino aggiungo anche “Voyage of the Acolyte” (1975) di Steve Hackett e “Solitude Standing” (1987) di Suzanne Vega.

Oggi è del super-chiacchierato, super-ambiguo, super-odiato e super-demonizzatoMetal Machine Music” che intendo parlarvi.
Innanzitutto – perché l’ho acquistato? Naturalmente il motivo principale è legato al prezzo, molto ridotto, e, in secondo luogo, a un fatto collezionistico e storico. Ammetto di aver sorriso quando l’ho visto, e ho sorriso dentro di me mentre, tirandolo su, lo facevo mio insieme agli altri album.

Ora, che sono a casa mia, lontano chilometri e chilometri da Milano, dalla Mondadori, dal Teatro dal Verme e dai Low, nella mia piccola e modesta radio ho messo su la “musica della macchina di metallo” (o “musica metal da macchinario”).
Sono alla terza traccia, appena iniziata, che è similissima, se non identica alle precedenti. Prima di oggi, lo ammetto, non ho mai ascoltato per intero l’album, né mi è mai passato per la mente di portarne a termine l’ascolto. Penso che veramente poche persone siano riuscite ad ascoltarlo tutto, o meglio, che abbiano voluto concluderlo.
Metal Machine Music” è chiaramente un sontuosovaffanculo” da parte di Lou Reed a chiunque, non al pubblico, non alla critica: a entrambi, e non solo. È un vaffanculo diretto ai suoi genitori, che, da ragazzino, lo hanno fatto sottoporre a elettroshock, con l’intento di eliminare la presunta omosessualità del figlio. È, anche, una dichiarazione d’amore alla chitarra, e al rock ‘n’ roll, e, come dice lui stesso, nelle liner notes originali dell’LP, un tentativo discrivereuna lettera il più realistica e appassionata possibile, perché sentiva di non aver mai inciso un disco che raggiungesse tale scopo.

Una creatura che ha poco del discografico, che è, piuttosto, una liberazione, un flusso di rumori che creano una sinfonia proto-industrial, senza, probabilmente, che Lou Reed fosse cosciente della portata e dell’influenza che avrebbe avuto. Un disco fatto per sé stesso, più che per il mercato discografico, una creatura mostruosa, difesa a oltranza dal suo autore. “Metal Machine Music” è tutto questo: è tutto e niente. La percezione di ognuno al riguardo è diversa.
Non è un album d’avanguardia, non è un album à la Stockhausen o à la Cage, ma un album à la Reed, musicista rock, cantautore soprattutto, che, smessi momentaneamente i panni del narratore per versi, sceglie di far parlare i suonii rumori. Che fossero, forse, i suoni che aveva nella testa!? Qualcosa che gli si avvicina.

Da ascoltatore, io non credo che “Metal Machine Music” sia più inascoltabile di altri prodotti in circolazione. Oggi, che lo ascolto per la prima volta per intero, perché sì, sono passati almeno quaranta minuti, e il tutto (e niente) – 64 minuti – si avvia alla fine, la mia mente e il mio corpo incanalano buona parte di quel che l’album dalle 3 emme” è, e vuole significare.
Da sempre affascinato da questa creatura mostruosa, imprigionata su disco, solo oggi, tuttavia, mi rendo conto della sua portata, e del suo valore intrinseco. È un qualcosa che, se si volesse dargli un voto, non potrebbe essere valutato con un giudizio mediano. O lo odi o lo ami, o gli dai 10/10 o gli dai 0/10. Qualsiasi voto di mezzo è ridicolo, non ha alcun senso.
Neanche Brian Eno, da sperimentatore e da uomo, avrebbe avuto così tanto coraggio, né così tanta voglia di mettersi a nudo, non a questi livelli di vulnerabilità. “Metal Machine Music” è una grande, grossa ferita. Lou Reed un genio, attraverso questi 64 minuti più manifesto che mai.

Il mio voto? Che ve lo dico a fare? 10/10

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