Viaggiavo verso i 14 anni quando mio fratello, probabilmente stufo di vedere che mi perdevo con i dischetti di Umberto Tozzi e della disco-music, decise di avere pietà di me e di salvarmi. Un bel giorno mi si presenta con un LP con la copertina protetta da una busta trasparente di plastica e mi dice: "Prova ad ascoltare questa roba".
Io ho ubbidito e, dopo circa 5 minuti dall'inizio di questo disco, comincio a pensare: "Ma che cazzo di musica hai ascoltato fino a un'ora fa?". Alla fine del primo ascolto lo rimetto daccapo e da lì si può dire sia partito un interminabile viaggio verso il ROCK (tutti i dischetti di musica leggera che nominavo prima hanno fatto una ingloriosa fine, o venduti o... PAFF! Scomparsi nella pattumiera).

Veniamo alla storia. Dopo la separazione dai Velvet Underground, Lou si trasferisce a Londra dove registra un primo album solista con qualche canzone carina ma non certo memorabile, per giunta con una produzione a dir poco orrida e con la partecipazione di musicisti che con lui c'entrano come il cavolo a merenda. Era il 1972 e, a quei tempi forse non c'era l'affannosa corsa all'incasso subito che c'è adesso, così gli venne data una seconda possibilità. Lui la sfruttò alla grande con l'aiuto decisivo di David Bowie e Mick Ronson, e ne venne fuori "Transformer".
Il successo non era però una cosa che faceva per Lou Reed e seguì così un album anticommerciale per eccellenza, il capolavoro "Berlin".

A traino di quell'album venne organizzato il "Rock'n'roll Animal Tour" dove Lou fa semplicemente il cantante, accompagnato dalle chitarre di Dick Wagner (già con Alice Cooper) e Steve Hunter (ex-Detroit), dal basso di Prakesh John (pure lui con Alice Cooper), dalle tastiere di Ray Colcord e dalla batteria di Pentti Glan.
L'entrata è pazzesca: una intro di oltre tre minuti dove le due chitarre si rincorrono e si intrecciano a meraviglia, nell'attesa che entri il leader. Dopo circa 3'30" di assoli e meraviglie varie, un riff famigliare. E' quello di "Sweet Jane", con gli applausi che accompagnano l'entrata in scena di un Lou Reed magrissimo, con i capelli biondi cotonati e occhiali scuri, il quale si dimostra in forma, nonostante il suo periodo sia umanamente piuttosto tormentato, e attacca con quella sua voce da maledetto: "Standin' on the corner, suitcase in my hand". Gli assoli di chitarra si susseguono poi per tutto il pezzo con Dick & Steve che si scambiano i ruoli, l'uno suonando ora il riff ora l'assolo e viceversa.
Dopo il clamoroso esordio ecco arrivare una canzone che viene dagli inferi dell'anima loureediana: è "Heroin", qui dilatata a dismisura (oltre 12 minuti), una versione che verso la fine, da una tristissima descrizione di cosa sia la dipendenza da eroina, si trasforma in un tiratissimo rock'n'roll. Probabilmente è il pezzo del disco dove si sentono maggiormente le tastiere di Colcord.
"White light/White heat" è il terzo recupero velvettiano ed è la terza trasformazione, la band suona un rock'n'roll metallico e cattivo che descrive bene l'ambiente newyorchese di quei tempi.
Arriva poi "Lady Day", l'unico pezzo del disco tratto da "Berlin", e probabilmente il meno convincente del concerto, mentre "Rock'n'roll" è sbalorditiva per ritmo, potenza, e per il magnifico duetto di chitarre che si protrae per oltre tre minuti prima di arrivare al gran finale dove tutti gli strumentisti si scatenano in una guerra all'ultima nota.
Da notare che nella ristampa del 2000 sono state aggiunte due bonus-tracks tratte da "Berlin".

Certo, per chi conosce solo il Lou Reed di oggi potrà essere un po' difficile riconoscerlo in questo animale da rock'n'roll, chi invece non lo conosce ed è interessato a un'infarinatura non può che partire da questa pietra miliare del rock.

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