Recensire "Transformer", possibile che nessuno lo abbia ancora fatto? Ok, ci penso io.
Ho l'onore di presentare uno degli album che hanno (veramente) lasciato il segno nella storia del rock, proiettato ai giorni nostri in una capsula spazio/temporale datata 1972, sfuggente come una meteora ma assidua, e costante, come un satellite. Un satellite dell'amore.
Non a caso questa gemma fu il frutto di un mitico (e questo è uno dei rari casi in cui utilizzo questo abusatissimo aggettivo) sodalizio artistico e, uhm?, sentimentale: David Bowie e Lou Reed che si incontrano, si danno appuntamento a Londra e realizzano insieme questo ibrido, psichedelico, bubblegum e metropolitano (perciò assolutamente magnifico) partorito dal glam britannico e dall'underground statunitense.
La carriera di Reed all'epoca era giunta ad un punto morto: svanita per sempre l'illusione warholiana dei Velvet Underground, appannatasi l'immagine perversa e lucente di quella New York di fine anni '60, il nostro cantore della Domenica Mattina riconobbe subito in Londra l'erede naturale di quell'ambiente effervescente, creativo e rigeneratore ormai schiantato contro una barriera costituita da morti eccellenti, tossicodipendenze, ostracismo da parte del grande pubblico (i dischi dei VU, come si sa, non vendettero niente) e irreparabili addii. Il ruolo di Bowie, lanciato verso l'epopea di Ziggy Stardust, fu fondamentale nella resurrezione del nostro amato crooner ribelle del marciapiede.
Il risultato fu questo disco, che rappresenta un miracolo che raramente si è ripetuto nel corso degli anni: un album comunque "di frangia", realizzato da un cantautore "di frangia" che allo stesso tempo arrivi al successo e alle masse senza venire meno nei confronti del proprio (glorioso) passato. Sono banale nell'affermare quindi che "la gente" ha conosciuto Lou Reed a partire da questo lavoro.
Ecco quindi un Reed che si ricicla nella figura di teppista vissuto da anni e anni impregnati di dissolutezza e inquietudine artistica, per aprirsi al rock fracassone e a dolci e amare ballate: in questa ottica, la produzione del Duca Bianco (e l'apporto, anch'esso "storico" di Mick Ronson alla chitarra) dà "sostanza" a questa maschera, rende veramente realistico questo travestitismo, allo stesso modo in cui era riuscito a rendere "terrestre" la favoletta esistenziale di Ziggy.
Sotto la veste festaiola e sfrontata di classici come "Vicious", "Hanging Around" (il brano più glammoso del disco) e la celeberrima "Walk On The Wild Side" (si può dire qualcosa di più su questo pezzo che non sia già stato scritto?), c'è un universo che, in quel preciso momento storico, viveva nella mente e nella memoria di Reed: artisti freak alienati ed eccentrici, primedonne che ostentano spudoratamente la loro insicurezza e fragilità, prostitute/i esaltati nella loro figura di sfrenata ma lucida decadenza, droga, follia e, nonostante tutto, speranza e utopia. Quest'ultimo aspetto emerge in modo quasi caricaturale in una delle più belle canzoni di sempre, quella "Perfect Day", dimessa e drammatica, che rappresenta un quadretto di improvvisa (e imprevista) serenità. Atmosfere simili (ma più straniate, giocose e ironiche) pervadono un altro grande classico come "Satellite Of Love": questi ultimi due pezzi saranno, 30 e passa anni dopo, trasformati in una canzone buona per i concerti del Vaticano (Lou Reed che canta di fronte al Papa..mah, in un certo senso ci può anche stare) e in una hit da discoteca (per quanto sia un'operazione simpatica). Di quel Lou Reed (così come di quel Bowie, oddio) oggi è rimasta qualche piccola traccia. Per questo ho parlato di "meteora".
Ma per fortuna gli anni passano e i dischi restano (anche se ascoltare "Transformer" in vinile deve essere un'altra cosa) e quindi io continuo a divertirmi con gli scherzi vaudeville di "New York Telephone Conversation" e ad addormentarmi con la jazzata "Goodnight Ladies". In attesa di una nuova trasformazione.
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