Come avrò fatto a perdere di vista Philippe Auclair, alias Louis Philippe? Di chi è stata la colpa se un songwriter della sua classe, pur appartenendo al mio olimpo dei musicisti di culto degli anni '80, si era per me come volatilizzato, generando in me la convinzione che fosse entrato a far parte della nutrita schiera delle meteore dorate e scintillanti degli eighties? Mah! Probabilmente sarà stata la sua lunga, circa un decennio, apparente inattività a cavallo tra la metà anni '80 e i '90 a causare la mia colpevole dimenticanza; oppure il suo addio alla benemerita casa discografica Él, vero crogiuolo per tanto pop sofisticato, inattuale e ricco d'influenze; o, più semplicemente, la scarsa propensione che ha il mercato discografico a valorizzare e far conoscere artisti "solo" bravi ma non "alla moda", con solide radici nella migliore musica popular e non disponibili a svilire il loro talento e la loro brillante idea della musica.
Ritrovarlo in ottima forma con il suo ultimo lavoro, "An Unknown Spring", è stato come rincontrare un caro amico di cui si sono perse le tracce. Tutte le migliori caratteristiche del suo pop da camera ammaliante, sinuoso, malinconico ma (quasi) mai triste, crepuscolare ma non privo di spunti briosi e spensierati si ritrovano nell'album. La parola chiave potrebbe essere "leggerezza", se gli amici e soprattutto Calvino mi perdoneranno il ricorso alla metafora ormai abusata. Respirare l'atmosfera rarefatta di questa "sconosciuta primavera" dà una sensazione di lieve capogiro, come potrebbe capitare trovandosi all'improvviso davanti ad un panorama incantato, senza riuscire a comprendere se ciò che si sta guardando è un sogno o realtà. Appena si parte si è già nel pieno di questo limbo dorato e con i primi due brani, "No Sun, No Sky at All" e "The Hill and Valley", sei quasi convinto di stare assaggiando le magiche erbe che Brian Wilson & brothers ammanivano ai fortunati ruminanti sulla copertina di "Pet Sounds".
I "ragazzi della spiaggia" sono di sicuro il punto di riferimento più costante ed evidente, soprattutto per le parti vocali, ma questa vena anni '60 si stempera e amalgama alla perfezione con altre influenze, dando vita a songs delicate e corpose, orecchiabili e complesse allo stesso tempo. In "Light Were Dancing On The Ceiling", ad esempio, si celebrano le sontuose nozze tra la musica da camera e le melodie alla Bacharach, con la voce del prof. Louis a dare il meglio di sé. Nella title track sembra poi di sentire il Paddy McAloon più bucolico e intimista, mentre "Fallen Snow" è un samba in punta di piedi ballato su sottile tappeto elettronico alla Stereolab. I riferimenti forse sono troppi, è vero, ma, come accade solo con i veri artisti, le "stratificazioni" si dimenticano e rimangono solo queste canzoni di rara qualità.
"An Unknown Spring" è senza alcun dubbio uno dei migliori lavori di indiepop degli ultimi anni e dà l'opportunità a chi, come me, aveva lasciato Louis Philippe troppo presto, in orbita con il suo consigliatissimo "Yuri Gagarin" (1989), di recuperare gli altri suoi lavori che, sono sicuro, daranno a chi li scoprirà non poche soddisfazioni.
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