Accostarsi ai lavori di Louis Philippe è estremamente semplice. Eppure, dalla coolness tutta eighties degli esordi targati "Les Disques du Crepuscule" (alla guida di Border Boys ed Arcadians) all'hype Shibuya che ha marchiato le sue produzioni soliste successive su etichette culto quali - tra le altre - "él" e "Siesta", il nostro è da sempre relegato ad un fandom assai ristretto. Complici le derive minimaliste dei nostri tempi e una inspiegabile renitenza degli addetti ai lavori ad esaltane le qualità, a poco hanno valso in termini di visibilità anche le illustri collaborazioni che costellano la sua ultra ventennale carriera. Le ultime lo vedono brillante fiancheggiatore di The Clientele e dell'ultimo Stuart Moxham dei riformati Young Marble Giants e, se non ciò non bastasse a solleticare la vostra curiosità, vi informo che il Philippe Auclair cui è dedicato "Circolo chiuso" di J. Coe altri non è che, al secolo, Louis Philippe.
Semplice dicevo, perché Louis è semplicemente tra gli autori pop più dotati della sua generazione; lucido, ispirato e fecondo compositore nel rispetto della migliore tradizione popolare colta (da F. Poulenc alla magnifica ossessione B. Wilson, passando per la new wave europea e brasiliana), tecnicamente ineccepibile, voce sublime nonché produttore e arrangiatore eccelso, il suo ultimo lavoro lo conferma Maestro ai vertici del pop più intransigente e sofisticato.
Autoprodotto per la propria "Wonder Records", "An Unknown Spring" è in effetti l'ennesimo parto meraviglia, lo specchio di un'anima pura riflessa in una sequenza di brani intrisi di un raro lirismo che si esalta come nel precedente "The Wonder Of It All" nella celebrazione della melodia pura, una galleria d'istantanee candidamente scippate al nostro immaginario romantico e restituite perfettamente incorniciate da un artista mai rassegnato a rinunciare alla cifra d'eleganza che da sempre lo contraddistingue nonostante l'adozione dell'etica DIY.
Nulla di nuovo, quindi, obbietteranno gli ostracisti e gli accoliti più cinici. Alludete agli stucchevoli esercizi d'auto indulgenza ed enfasi teatrale, sofistici anziché sofisticati, vero? Certo, anche A.U.S. ne difetta, ma sappiamo tutti trattarsi delle stigmate di chi è condannato a versare in uno stato di grazia inesorabile. La novità importante rispetto al passato e che trapela limpidamente dall'ascolto di A.U.S. risiede semmai in un montante e palpabile senso di disillusione, evidentemente maturato negli ultimi anni, che stempera la consueta esuberanza vocale e strumentale in intime interpretazioni esposte alla scarnificazione degli arrangiamenti. Esemplare in questo senso il finale dell'album ("I Didn't Like The Film", "Wild Eyed And Dishevelled"), dove Louis lavora di sottrazione e ci regala ballate pop di commovente ed inedita immediatezza.
Anche gli estranei al culto di Louis, se gradiscono essere introdotti a capitoli tra i più intriganti della storia della vera musica pop degli ultimi vent'anni, sono caldamente invitati all'ascolto di A.U.S. e soprattutto al recupero della sua intera discografia. Non ne rimarranno delusi giacché l'epopea annovera capolavori imprescindibili (frettolosamene bollati qua e la new wave, C86, indiepop, lounge, easy listening, chansonnier, etc. tale è l'unicità poliedrica di Louis), da scoprire in un vertiginoso viaggio a ritroso nel tempo e capaci di rimescolare le carte e resettare le certezze.
P.S.: La rcensione originale ed autografa compariva sul sito Losingtoday.it; l'autore la ripropone qui onde garantire all'artista una maggiore visibilità.
Carico i commenti... con calma