Se conosco Louis è in massima parte grazie a Ronnie e Robbie e in minima alla mia passione per leggere i crediti sulle copertine degli album.

Ronnie di cognome fa Peno e canta in una banda australiana, i Died Pretty, sono usciti con un disco che si chiama «Free Dirt», cosa non è la canzone che apre il lato b, «Life to Go».

Poi c’è Robbie, Rob Younger, quello che prima stava nei Radio Birdman e ora nei New Christs, hanno appena fatto un album, dopo tre quattro singoli uno più bello dell’altro, “Distemper”, cosa non è quella canzone, «The Burning of Rome».

Ronnie e Robbie hanno in comune di essere australiani e suonare in bande australiane e fare parte di una scena, quella del decennio '77/'87, che è la storia migliore a cui presto le orecchie nella mia adolescenza.

«Life to Go» e «The Burning of Rome» hanno in comune di essere brani stratosferici e di ospitare il pianista Louis Tillett.

La prima idea che mi faccio di Louis è di un tipo alla Nicky Hopkins o Al Kooper, uno talentuoso, talmente tanto che tutti lo cercano e lo vogliono a suonare nei loro dischi: Nicky praticamente è una pietra rotolante, Al è dylaniato, Louis è un nuovo cristo e tanto altro; e se stai obiettando che il paragone non regge, significa solo che del rock che si suona agli antipodi in questi anni, di cose come «Life to Go» e «The Burning of Rome» e tutto quello che ci gira intorno hai realizzato meno di niente.

Louis accumula crediti su crediti sul retro delle copertine giuste della grande cosa australiana, fino a che decide che quei crediti è tempo di incassarli e il suo nome gli appare in sogno stampigliato in grande e bella mostra sul fronte della copertina.

Come accade per «Ego Tripping at the Gates of Hell», è il 1987, l'esordio solista di Louis. A me cose del genere non tornano e non torneranno per decenni ancora perché, per me, i pianisti o suonano classica oppure jazz e già mi suona strano Gene Taylor – quello che sta nei Blasters – figurarsi Louis; Louis che fa la stessa cosa ma la fa in tutt'altra maniera, gioca nello stesso campo ma con regole diverse, cioè fa rock ma sfido a trovare uno che suona il piano rock come lui.

A un certo momento ne sento un altro che, la prima volta, mi stupisce quanto la prima volta di Louis: è un jazzista, tale Dave Brubeck, il pezzo è «Blue Rondò à la Turk», la fotocopia emotiva di «Trip to Kalu-Ki-Bar». E vedo la luce, Louis è Dave Brubeck prestato al rock, ho ragione quando sostengo che un pianista deve per forza essere un jazzista, anche se suona in un gruppo rock.

Se una cosa me la spiego, alla fine la vivo meglio e così la stranezza di Louis ora mi piace e l'album che viene dopo fila via che è un piacere, senza troppo bisogno di rimuginare che roba è quel suono che esce dai solchi: tanto blues, altrettanto rock, pure soul ed errebbì affollano «A Cast of Aspersion», 1990, album bello, bello quanto «Ego Tripping», solo meno stupefacente perché Nick Cave l'ho già sentito e assimilato, stessa cosa Kim Salmon, Tex Perkins e gli altri stravaganti dell'altro mondo e ora che conosco pure Dave Brubeck nulla mi stupisce più.

«Se qualcuno si prende il disturbo di spendere il suo denaro per assistere ad un mio concerto, mi sembra giusto dargli in cambio due ore rock, mica mi presento sul palco accompagnato da un quartetto d'archi. E però credo anche che è fondamentale cogliere di sorpresa chi ascolta la mia musica, restituirgli qualcosa che non si attende da me.», parole di Louis impresse sulle pagine di qualche fanzine fuori dal tempo, la traduzione non è assolutamente letterale ma il senso rispecchia in pieno il suo pensiero, forse contraddittorio o forse perfettamente lineare.

Magari è un modo come un altro per dire che l'adolescente perso per il punk dei Radio Birdman e il garage dei Lime Spiders, ora vuole altro, qualcosa di più di una colonna sonora per una sbronza.

Oppure un modo come un altro per introdurre il difficile terzo album, per dirla con Billy Bragg, «Letters to a Dream», ottobre 1992.

«Voglio evitare qualsiasi forma di stravaganza, non è la strada che voglio percorrere, non mi interessa essere una sorta di clown da circo. Il diavolo fa il lavoro del diavolo, non quello di Dio, e viceversa.», sempre a memoria da qualche pagina sbiadita: così, al termine di una serie di concerti in Europa insieme a Nick Cave, Louis decide che è tempo di cambiare.

«Letters to a Dream» è il nuovo suono, più niente da condividere con il rock, il blues e il jazz degli album precedenti, neppure con l'atmosfera bandistica degli Ego Trippers o degli Aspersion Caste: spartano fino all'eccesso, dominato dalle liriche e dal piano, segna il nuovo corso.

Solo che il nuovo corso di Louis non è proprio il nuovo corso intrapreso dalla moltitudine – quello è segnato dai Nirvana di «Nevermind» – e Louis sparisce nel nulla e «Letters to a Dream» insieme a lui.

Mi viene da dire per fortuna: perché, per come sono fatto, nel 2020 e ancora oggi questo album è la cosa più bella suonata da Tillett; nel 1992, per come ero fatto, questo stesso album non sarebbe sopravvissuto nella mia discoteca. Insomma, se «Ego Tripping» e «A Cast of Aspersion» li apprezzo in pieno solo dopo aver compreso Brubeck, «Letters» lo apprezzo in pieno solo oggi, dopo aver compreso Beethoven e Chopin – compreso in minima parte e a modo mio, ovvio.

Disco classico nel senso letterale del termine, ondivago tra l'epica invincibile di una terza sinfonia e l'intimità fragile di un notturno, tra l'inquietudine che ispira l'immagine di copertina e la fiducia che ispira la storia che ci sta dietro (lunga, te la risparmio); che è poi la caratteristica di tutta l'opera di Louis, sempre tesa a volare alta per poi sprofondarsi nell'abisso dopo un attimo, come pochi mesi prima a una «Carousel» seguiva una «Condemned to Live», adesso a una «Entering the World of Morpheus» non può che seguire una «Tempest», a una «Dancing with the Devil» una «Do Not Go Gentle into that Good Night» e a una «Work Song» una «Daybreak's Reprieve», senza forzature e strappi, in modi assolutamente naturali, perché tra il cielo e l'abisso non esiste differenza alcuna.

«Come non esiste differenza alcuna tra il deserto e il mare, la stessa sensazione di splendida solitudine e urgenza di sopravvivere», sempre Louis – questa mi è rimasta impressa alla perfezione.

Louis che, in un certo senso, farà anche meglio in «The Ugly Truth», lui e Charlie Owen in perfetta solitudine, forse il punto di partenza ideale per accostarsi a un talento unico, perfino in quella fucina che di talenti ne sforna senza pausa che è la scena australiana anni '80.

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