I Cinderella di Night Songs ma più incazzati. I Guns n' Roses di Appetite For Destruction ma più stradaioli. I Poison di Look What The Cat Dragged In ma più punkeggianti. Le Phantom Blue di Built To Perform ma più metallari. Gli Enuff Z' Nuff dell'omonimo ma più creativi. In una dicotomia che racchiude il meglio degli esordi dei gruppi citati, i Love/Hate.
Sempre vissuto all'ombra dei più famosi, questo combo, ovviamente targato L.A. sex/sex/sex, è stato propulsore dello street glam più anarchico e rabbioso che si sia mai ascoltato sul Sunset Boulevard. Un gruppo che dal 1990 al 2000 ha fatto circolare ottimo materiale ma che probabilmente ha servito il miglior piatto proprio con questo disco d'esordio datato anno dei mondiali in Italia. Io ero piccolo ma già mi facevo endovena di hard rock in presa diretta grazie al figlio di un ingegnere americano che per due anni ha vissuto in Italia nella mia stessa città. Ed è stata la mia fortuna.
Mi ritengo un fortunato ad aver incontrato e sposato - sì proprio così - questo modus vivendi che porto dentro da più di vent'anni ormai perché era esattamente ciò che avrebbe potuto mandarmi in profonda crisi esistenziale se, per assurdo, lo avessi scoperto in età molto avanzata. Sono certo che mi sarebbe mancato qualcosa come le urla al vetriolo del vocalist dei Love/Hate (curiosità: come da rigoroso stilema anni 80, i tre musicisti alle back vocals capellacci neri, lui rigorosamente biondo!) che potrebbero scolpire il marmo con precisione micronesimale. I pur mitologici Tom Keifer e Axl Rose avrebbero dovuto prendere lezioni, senza nulla toglier loro. La differenza tra i gruppi da prima pagina patinata e i gruppi che ti si tatuano addosso senza bisogno di vederli in copertina sta nel fatto che i primi sono tutto quello che vuoi, ma hanno fame di successo, mentre i secondi hanno la cattiveria vera che viene dall'asfalto, dai mattoni rossi di una traversa di un qualsiasi blvd, dalle scalette di metallo abbarbicate sugli edifici fumanti degli inseguimenti poliziotteschi. E vogliono farsi di gente prima ancora che di merda.
I Love/Hate sono stati dentro a questi panni con onestà e spontaneità e sono certo che se a un qualsiasi rocker si chiedesse una opinione sulla band, immediatamente si accartoccerebbe su se stesso simulando uno dei loro riffoni di chitarra. Infatti, i Love/Hate sono trasporto, groove, energia, tutti elementi che in tanta musica di oggi mi sembra proprio tristemente mancare.
Vediamo, invece, perché sono le spezie di questo "Black Out In The Red Room".
Come avrete già inteso, il disco presenta un rockazzo elettrico ed elettrizzante, di matrice fottutamente stradaiola, tecnicamente perfetto, altolocato per fattura, mai arrogante come quello di tanti altri gruppi, vicino (ma un gradino più su) anche a quello dei più ispirati L.A. Guns. Rockazzo di cui hanno evidentemente fatto tesoro gli Skid Row di Slave To The Grind, anche in fase di produzione del loro capolavoro. Il vocalist al vetriolo ve l'ho già istintivamente presentato ma merita un approfondimento (sempre condito di paragoni per fornire un minimo di servizio bussola a quelli che non conoscono la band ma ancora stanno leggendo): ha la voce raschiata ed acutissima, sarebbe capace di arrivare, sempre graffiando tantissimo, agli acuti monolitici e stellari del singer degli Steel Heart in She's Gone. E poi ha la spocchia del Miglior Vince Neil. Lavorando direttamente di bisturi sulle corde vocali di Tom Keifer e Sebastian Bach, per intenderci, si potrebbe arrivare con intervento di chirurgia vocale ad un qualcosa di simile. Lui ha il potere di strapparti dalla sedia anche se sei in una riunione di lavoro, di farti fare la maratona di sesso, di trascinarti in una lotta di quartiere. Una belva. Gli altri sono tutti musicisti con la M iniziale e la I finale maiuscole. Sontuosi e creativi (è la seconda volta che uso questo aggettivo) interpreti di una corrente musicale che già rischiava di implodere quando ancora non aveva conosciuto la miccia per la giusta esplosione.
L'album esordisce con la titletrack, possente street glam dove la scossa elettrica si manifesta in tutta la sua componente catchy, leopardata e incredibilmente glam. Una base ritmica degna di far sottofondo alle passeggiate dei peggio poser mentre voce ed assoli sono da far increspare gli umori delle donne.
I virtuosismi vocali di chiusura sono degni di nota. Il secondo pezzo è Rock Queen, un adrenalinico e sparatissimo boogie woogie da rimorchio in pista o in concerto. La batteria spara proiettili, la voce sodomizza, i riffoni mitragliano del tutto e tu ti senti legato alla sedia. Una mazzata, un pezzo esaltante. La galleria della lussuria prosegue con Tumbleweed , brano tipicamente impostato su felini riff d'atmosfera cari a gruppi come Motley Crue, Tigertailz, Britny Fox. Finale schiacciante e tritasassi. Inutile ribadire l'originalità nella selezione accurata delle note che non sembrano mai copiate, anzi.
A seguire il pezzo che non ti aspetti. Songwriting di traccia (complessivamente testi eccellenti e mai banali come ci si potrebbe aspettare: amore, sesso, rabbia, violenza e droga qui sono trattati con una certa, come dire, perizia...) incentrato sul tema del titolo Why Do You Think They Call It Dope?. In questo incredibile ed euforico brano succedono cose strane a partire da subito. Dopo l'entrata del cantante e una brevissima intro che sembra aprire un pezzo glam, prende sopravvento il basso che detta un ritmo funky/prog che (udite,udite!) me ne ricorda uno dell'album On The Corner addirittura del sublime (iniziate a prostrarvi ed applaudire) Miles Davis, in piena attività di eroinomane. Lo seguono tutti gli strumenti fino a quando la batteria lo accompagna quasi a tempo di dance. Miracoli del glam che sa anche come fondersi a generi considerati più importanti come la fusion funkyprog! Il tutto continua con una pestata punk arricchita di stop & go che strappano clap clap a go go. Warholiani. Assoli ed effetti di sottofondo effettivamente sono di chiara matrice psichedelica. Il miglior pezzo di tutta la loro discografia secondo me.
Sornione entra il quinto brano Fuel To Run. Se fossi stato un produttore di successo lo avrei dato in pasto ai Great White per una cover. Sicuramente è una canzone calibro Hooked della band appena menzionata ma non credo che, almeno a livello vocale, i risultati sarebbero stati simili.
Cosa dire di One More Round. Scanzonato hard rock che nelle backing vocals della prima parte e nel complesso della seconda parte mantiene i postumi della traccia precedente esibendosi in un bollente hard rock contaminato dallo space (non spice, ma space, capito?).
Da She's An Angel magari ti aspetti la ballatina. Invece non la troverai mai. I Firehouse e gli L.A. Guns più groovy ascoltando questo brano avranno pensato "Ammazza che bravi questi".
Mary Jane è sinuosamente sleazy, canzone da struscio in dancefloor al pari della successiva Straightjacket, comunque più virata verso la ressa da sottopalco. Chi non si divertirebbe a cantarla sparandosi le pose mentre sotto lo stage succede di tutto?
Di nuovo street glam da manuale in Slutsy Tipsy. Ma sempre del manuale che hanno scritto loro, non quello che gli altri comuni immortali utilizzavano.
Il pezzacchione di riff astruso e sballone munito è il penultimo di questa borchia di cd e s'intitola Slave Girl, dove tutti insieme esplodono ancora come popcorn nella pentola. A chiusura di opera c'è la song più casinista e da fine party dell'album, che non si fa mancare passaggi ritmicamente degni del metallo pesante, pur restando un hard rock gommoso e ben lubrificato.
Mo dovrei scrivere una chiusa per liquidare questo lavoro. Ma sto scrivendo e ascoltando contemporaneamente il disco e mi viene una grandissima voglia di tirare le chitarra a spetasciarsi sul muro. Ma non ho una chitarra e se avessi una penna lo farei. Ma siccome ho sudato, mi sono divertito e per le mani ho un computer lo faccio. Lo tiro sul muro e vaffanculo al mondo.
Yeah!
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