Premessa: questa recensione è immorale, è un doppione, che probabilmente avrà fatto slittare dalla homepage una qualche analisi più degna di esistere. Avevo solo un gran impulso di scrivere su quest’opera.
Al primo ascolto rimasi indifferente, anzi, provai una sorta di repulsione, reputando l’album pretenzioso, arrangiato in maniera kitsch e troppo evidentemente ingenuo nella sua aria da ’67’s Summer Of Love. Dopo numerose altre “sedute”, riuscii ad uscire dall’apatia riconoscendo almeno la cura del tappeto sonoro e un bel pezzo drammatico come “The House Is Not A Motel”. Lo rimisi sullo scaffale, accanto a The Byrds e Grateful Dead, e ci rimase per un lungo periodo. Un paio di settimane fa, chissà perché, lo ripresi in mano. Sarà stato il ventesimo ascolto, suppergiù, ma finalmente qualcosa si mosse, così lo riascoltai almeno un’altra ventina di volte, e lo sto facendo tutt’ora.
"Forever Changes", dei californiani Love, è uno dei più grandi album della Storia della musica, uno dei simboli dell’intera stagione psichedelica, uno dei più fulgidi e drammatici esempi di intimità sonora. L’anno è il 1967, lo stesso del terremotante debutto dei The Doors che uscirono per la stessa etichetta (Elektra Records, fino ad allora specializzata in musica folk). I Love erano già al terzo lavoro, ed il precedente Da Capo, con le sue influenze jazz e acide, aveva messo in mostra una grande creatività free form. Invece di proseguire sul quella strada, che verrà dominata da un certo Hendrix, il gruppo cambia direzione allontanandosi dalla strumentazione elettrica e dalla foga rockettara. In quest’opera, le chitarre elettriche non sono presenti in più che tre pezzi, e così anche le tastiere sono quasi del tutto accantonate a favore di una composta ma fondamentale sezione di archi e fiati.
Per capire il perché di una scelta così controcorrente rispetto alle tendenze dell’epoca (vedi Jefferson Airplane, Cream, Big Brother & The Holding Co.), bisogna immergersi nell’atmosfera di tali giorni, tra il giugno e l’agosto del 1967 negli studi della Elektra: la band è pressata dai buoni riscontri dei due precedenti album, i membri sono divisi da incomprensioni personali anche a causa dell’uso sfrenato di droghe. Al centro di questo, Arthur Lee, il leader di questo ensemble, è sempre più perso nel suo disagio, e vagheggia su vita e morte, su music-business ed isolamento (dalla canzone “The Red Telephone”: “sitting on the hillside/watching all the people die/I’ll feel much better in the other side”).
Dopo delle quasi inconcludenti sessioni di giugno, la band si prende un mese per pensare, comporre, schiarirsi le idee. Tornano in studio ad agosto, e nasce il capolavoro.
La prima canzone, “Alone Again Or”composta e cantata dall’altro cardine Bryan McLean, è già un capolavoro dentro il capolavoro: chitarre acustiche e archi, un assolo di tromba dai ricordi latino-americani; la voce di McLean, curiosamente ma volutamente, fu mixata da Lee non in perfetta armonia con gli arrangiamenti e le seconde voci, creando un effetto quasi dissonante e “storto”. La già citata “The House Is Not A Motel” è il pezzo più duro e acido dell’opera, oltre che il più evidentemente drammatico (“the water’s turned to blood”). Altre composizioni imprescindibili “Old Man”, “The Red Telephone” e la conclusiva “You Set The Scene”, mentre merita una menzione a parte la splendidamente arrangiata (e dal titolo chilometrico) “Maybe The People Would Be The Times Or Between Clark And Hilldale”: una canzone incredibile in quanto ad intensità e misura.
Arthur Lee pensava era convinto di morire (effetti collaterali dell’LSD?), e questo doveva essere il suo personale requiem. Morirà di cancro molti anni più tardi, dopo una vita di tossicodipendenza e grane legali, ma il suo operato rimane lì, sublimato in "Forever Changes", intoccabile in ogni suo solco. Al pari (…?) del debutto Doorsiano, del Cuscino dell’Aeroplano Jefferson, questa non è solo Storia, è di più.
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